Nato a Londra, padre napoletano, madre inglese, cresciuto in parte in Francia, il musicista (e pittore) Piers Faccini, vive ora nel Sud della Francia, nelle Cévennes. “La colonna centrale della mia musica”, dice, “rimane nella tradizione della canzone angloamericana ma è colorata da tante altre musiche diverse”. I suoi dischi si ispirano non solo al classico folk, ma anche al soul, al blues, alla pop, con delicate e affascinanti sonorità d’origini africane, brasiliane, italiane, indiane… La musica per Piers Faccini è un viaggio nel nomadismo.
Come nasce “Two grains of sand”, il tuo ultimo album, e come si differenzia dai precedenti “Leave no trace” e “Tearing sky” ?
Tutti e tre gli album sono nati alla stessa maniera, nel senso che lavoro da solo, scrivo da solo… La cosa che è cambiata con quest’album è che ho continuato a lavorare da solo durante la registrazione, invece con gli altri ho lavorato con un produttore, poi abbiamo trovato un periodo – sul primo 5 giorni, sul secondo 12 – e avevamo fatto tutto in quei giorni in studio, con tutti i musicisti. Questo è un lavoro che è durato, dall’inizio alla fine, quasi più di un anno, dato che ho registrato un sacco da solo a casa, e anche viaggiando in Sud Africa e altri posti, e con tutto questo materiale ho finito il disco a Parigi con un produttore che si chiama Renaud Letang e abbiamo prodotto il disco assieme. È un disco, questo, che ad ogni livello, ha più la mia firma, mentre con gli altri c’era anche la firma del produttore.
Semplice, in accezione positiva, è uno degli aggettivi più legati al tuo album. Come definiresti tu questo tuo terzo album?
Penso che il colore del disco è proprio il mio gusto, nel senso che il primo teneva molto gli arrangiamenti del violoncellista Vincent Segal, il secondo, beh al produttore piacevano molto le cose vuote e anche a me, ma lui è molto più estremo di me, invece su questo ho fatto io gli arrangiamenti e c’è un misto fra questo gusto di volere le cose un po’ vuote e quello di volere anche un po’ di armonia; insomma, il disco precedente aveva questa riduzione di colore, una cosa monocromo, invece questo lo vedo più colorato, cioè le armonie coprono tutto lo spettro.
Buckley, Drake, Ben Harper, Damien Rice… Sei stato paragonato a tanti artisti. Però il tuo primo amore musicale è stato un bluesman del Mississipi, Skip James, giusto?
Devo dire una cosa, ho letto questa cosa solo in Italia, forse tre, quattro volte questo paragone con Damien Rice, ma io non c’entro proprio niente con lui, non ho nessun suo disco, non lo ascolto, non… non è che non mi piace, non è una musica per me. Forse l’unica cosa in comune è che abbiamo la stessa età e abbiamo ascoltato le stesse cose, però è strano e anche sorprendente vedere come ogni paese trova il suo paragone, forse perché in Italia c’è più gente che conosce la sua musica. Io so che ho girato gli Stati Uniti, ho fatto tantissimi concerti e non mi è mai stato fatto questo paragone.
Prendiamo nota, allora. Invece tornando al tuo primo amore per il bluesman del Mississipi Skip James?
Quando avevo 15-16 anni, col mio gruppo facevamo molte canzoni degli Smiths, che era il gruppo che mi aveva veramente affascinato, poi un giorno, quando già iniziavo a fare collezione di vinile e andavo nei mercati a cercare quelli d’occasione perché avevo pochi soldi, ho visto questo vinile di Skip James, che non conoscevo, però già dalla copertina mi piaceva quindi l’ho comprato, sono tornato a casa, l’ho messo su e sono impazzito. Poi ho venduto la mia chitarra elettrica e ho preso una chitarra acustica, ho comprato delle armoniche…
E così hai cambiato completamente genere…
Sì, sì totalmente. È un po’ come l’amore, quando senti una cosa così, è il riconoscimento di qualcosa che tu già hai dentro di te, è talmente forte che avevo l’impressione di… per la prima volta, di sentire la mia musica. È un po’ strano perché io ovviamente non sono americano e neanche afroamericano, però così è il mistero, può succedere.
E oggi quali sono i tuoi maggiori riferimenti musicali?
Per me i riferimenti sono… veramente più dei riferimenti di artisti che sono più vecchi o non ci sono più, fra tutti ovviamente i bluesman come Skip James, Reverend Gary Davis, Son House, però anche tutta la generazione degli anni ’70 e ’60, da Dylan, Joni Mitchell, Neil Young, ma anche tutti i cantautori e chitarristi inglesi : John Martyn, Nick Drake, Richard Thompson e poi c’è tutta la musica africana soprattutto del Mali, che adoro, e che mi ha molto influenzato, anche la musica brasiliana di Caetano Veloso, Gilberto Gil, insomma sono molto influenzato da tantissime parti diverse. Oggi gli artisti che mi piacciono sono Bonnie “Prince” Billy, Pj Harvey, e un gruppo che ho conosciuto poco tempo fa, i Dirty Projectors.
Nato a Londra, origini un po’ italiane, un po’ polacche e un po’ olandesi, ma cresci in Francia… Come ha influito questo tuo essere “apolide” (ho letto su Cafebabel che così ti sei definito) sulla tua musica?
Penso che sia stato questo che mi ha permesso di vedere la musica come viaggio, non viaggio in senso turistico ma nel senso di nomadismo, questa idea che la casa è… che casa tua e lì dove ti trovi. Penso che queste influenze da varie parti del mondo siano sempre state là nella mia musica, forse c’è un aspetto che sta maturando, che, comunque, la colonna centrale di quello che faccio rimane nella tradizione della canzone angloamericana, sia inglese sia americana, invece il modo di colorarlo è molto influenzato da tante musiche diverse. Però se per esempio domani… immaginiamo che tu sia un cantautore italiano e poi ti innamori della musica indiana e hai questo sogno di mettere questi due mondi insieme, non lo puoi fare immediatamente. E’ come un pittore: un pittore non può scegliere uno stile, ma viene da solo, cioè un giorno si alza e si mette a dipingere e c’è qualcosa di originale, che appartiene solo a lui, che esce. Questa è una cosa che non si può sforzare.
Tornando a questi paragoni che mi fanno a volte, per esempio, ho letto in un giornale italiano uno che diceva che la mia canzone Your name no more è molto influenzata da Ben Harper: ma dove vai a cercare queste cose? Ben Harper è un artista che ammiro e che amo tanto, siamo amici e posso dire che forse qualcosa di quello che ha fatto mi ha influenzato, però ascoltare un pezzo come Your name no more e dire che è influenzato da lui è strano, perché per me quella canzone è il pezzo più africano dell’album. Ben Harper non ha mai fatto una roba così, cioè lui rimane molto americano, invece Your name no more è molto nord africano c’è chic chic chic naira naira (imita il suono ndr), insomma per me questi paragoni sono molto frustranti, perché a volte un giornalista, per motivi suoi, vuole sempre dire ‘questo assomiglia a questo’ e a volte è vero, a volte è giusto, ma altre…
L’Italia è un paese che adoro, suono in Italia, ho un piccolo ma bel pubblico quando faccio i concerti, però c’è sempre questa tendenza di fare paragoni con qualcosa d’altro di più conosciuto, mi sembra una cosa giornalistica un po’ pigra. Forse è legato a questo senso d’inferiorità che porta a dire che in Italia le cose non sono belle e quindi devono seguire le cose all’esterno, no? Però a volte seguendo tutte le altre cose perdiamo qualcosa di importante. Per esempio, io ho fatto la produzione, arrangiamenti a un gruppo, gli Gnut, che oggi non ha una casa discografica e per me è uno scandalo, con tutte le altre cose che escono in Italia, c’è un vero cantautore italiano, originale, che è molto influenzato da tante musiche diverse, fuori dal registro italiano, però riesce comunque a fare il cantautore e se ne parla così poco.
Come sei arrivato a conoscere e produrre gli Gnut?
Perché è successo un caso molto strano, ho sposato sua sorella e lei mi ha detto che anche suo fratello è un musicista però è molto giovane. Poi mi ha fatto sentire delle cose e mi sono detto che è bravo, molto bravo. Poi da tre quattro anni ha fatto passi da gigante nella sua scrittura, e poi hanno fatto questo primo disco e lo hanno fatto tre o quattro anni fa e c’erano tre o quattro pezzi molto belli però era un po’ caotico come modo produzione e di arrangiamenti, quindi gli ho detto: “se vuoi ti faccio questo lavoro”, per me sarebbe un grande piacere fare il produttore e l’arrangiatore perché quando hai delle belle canzoni fare la produzione e gli arrangiamenti è un bellissimo lavoro. Quando le canzoni non sono belle allora è un lavoro molto difficile perché devi fare tutto tu, invece là era più una questione di togliere per ridare il senso a una cosa che già ci stava, non per coprirla però, ma per lasciarla così. Per me è stato molto bello.
Girando in Italia ho conosciuto molte persone e ho incontrato anche questo percussionista che è il leader del gruppo Canzoniere Grecanico Salentino, che è un gruppo storico della musica del salento, Mauro Durante e lui è un violinista che suona anche i tamburi, farò sicuramente qualcosa anche con loro. Perché al di là del progetto di Claudio, quello degli Gnut, che è un progetto di cantautore, mi piace anche molto la musica del sud Italia, tutta la musica popolare.
Che rapporto hai con la musica italiana e con quella del sud in particolare?
Ho suonato e ho fatto qualcosa con Uccio Aloisi, grande cantante del Salento. Beh tornando al Your name no more la canzone è costruita sulla ritmica del salento che poi alla fine è diventata un’altra cosa però, all’inizio, avevo questo giro (canta un ritmo) poi ho aggiunto questo (canta un altro ritmo) che è il ritmo del salento.
Ho letto su una rivista francese, che dopo questa esplosione il folk rock, per quello che questa categoria voglia dire, ormai è un genere in declino a scapito di un pop rock, più elettronico e psichedelico. Che ne pensi?
Secondo me questo è un discorso… un discorso di come va la moda alla fine. Per quanto mi riguarda, io non ho mai voluto seguire la moda. È possibile che oggi abbia avuto la fortuna che per caso la mia musica, per motivi di moda, abbia maggiore pubblico; io sto facendo questa musica da quando avevo venti anni però ho fatto il primo disco a trenta, forse anche per motivi di moda non sono riuscito ad avere una casa discografica prima, anche facendo la stessa musica. Però la mia musica non la descrivo come folk, cioè c’è un aspetto di folk, nel senso che non posso suonare ogni canzone con picking sulla chitarra e voce, però se senti per esempio A Storm Is Going To Come, o Your name no more o Strangers, per me non è folk, per me il folk è Bob Dylan nel primo album chitarra e voce, Woody Guthrie o Pete Seeger. Per me questo è il folk, per me… la mia musica… non mi trovo ridotto a dire che sono folk, perché magari su una canzone c’è una energia folk, su un altro un po’ rock, su un altro un po’ blues o musica africana.
Però tornando alla domanda, forse oggi ho l’impressione che ci sono stati tantissimi dischi di chitarra molto folk, non come faccio io che faccio uno o due pezzi così in un disco però c’è gente che… cioè per esempio, Bonnie “Prince” Billy lo adoro, ma lui fa sempre la stessa cosa, lui è un’artista folk, di questo genere, fa sempre la stessa cosa, molto bello però…Io ho fatto tre dischi con stili diversi, il prossimo non lo so dove andrò, penso che le influenze più importanti che mostrano i nostri percorsi come artisti sono delle cose che scopriamo quando siamo molto giovani. Credo che non posso, non potrò più essere influenzato da una musica come lo sono stato con Skip James, è impossibile, perché quando sei artista inizi a camminare una strada che prende una certa direzione, nel momento che incominci, che cammini, cammini, cammini non puoi tornare indietro; puoi cambiare direzione, però quando cambi cambi dopo non è la stessa cosa. Perché questo primo passo lo fai quando sei vuoto, quando sei all’inizio, dopo non puoi ripartire da zero.
Ho letto che molti sono rimasti colpiti da questa tua scelta di trasferirti nelle Cévennes. È così strano per te?
Forse si meravigliano solo perché io primo abitavo a Londra e prima ancora a Parigi. Sono cresciuto in campagna quando ero molto giovane e questo amore per la campagna è rimasto sempre con me. Le Cévennes è un posto bellissimo e molto selvaggio e assomiglia all’Italia, ai posti più vuoti dell’Umbria o alcune parti della Toscana, però con meno case. Questo è un posto che mi ispira molto, è molto facile scrivere là e poi avendo due bimbi, stanno molto meglio là che in città.
Dato che sei anche un pittore che rapporto c’è tra la pittura e la musica?
Per me sono semplicemente parte di me. Come ogni persona abbiamo l’abitudine di esprimerci… e per me… beh io ho l’abitudine, da quando ero molto giovane, di fare musica e pittura assieme e ho sempre fatto entrambe, anche se oggi ho meno tempo per la pittura. Ci sono alcune cose in cui è molto utile avere dubbi, però su alcune cose non bisogna fare troppe domande: “come fare e perché”, tu respiri e non ti chiedi come fai, se lo facessi ti verrebbe l’ansia, per me è un po’ così per la pittura, fa parte del mio modo di vivere, succede e basta.
Piers Faccini Two Grains of Sand EPK from ludella billot on Vimeo.
Autore: Francesco Raiola / foto di Angela Verrastro
www.piersfaccini.com