Gli Hogwash hanno da poco pubblicato il loro quarto cd “Half untruths”, per la Urtovox records.
In giro da una decina anni, sono partiti da sonorità pesanti, ma non solo, e sono stati considerati stoner. Nel corso degli anni hanno trasformato il loro sound, sviluppando la parte intimista ed approdando ad un ottimo indie-pop-rock. Ad affrontare questi temi e non solo è stato il leader del gruppo bergamasco, Enrico Ruggeri, voce e chitarra.
La votra esperienza discografica è partita con un genere più aggressivo come lo stoner, per poi approdare ad un sound molto più soffice e sofisticato, perché questo passaggio?
E’ vero, il nostro primo disco, “Fungus Fantasia”, aveva molti elementi di stoner, ma non ci esprimevamo solo con quel genere. C’è da considerare la musica che girava nella seconda metà degli anni ’90, per cui è stato molto facile per i giornalisti incasellarci in quel genere. Già in quel disco, in ogni caso, c’erano parti acustiche, quindi era nell’insieme un disco sostanzialmente eterogeneo, in quanto erano rintracciabili anche alcune parti di prog. In ogni caso ci eravamo stancati e ci eravamo resi conto del limite dello stoner, che per noi in quel momento era diventato
limitato e sterile. In quel periodo poi abbiamo dato spazio ad altri ascolti, come i Red House Painters o altre cose intimiste e abbiamo cominciato a sentire l’esigenza di una maggiore introspezione. Il momento decisivo è stato il penultimo album “AtomBombProofHeart”, dove
abbiamo cominciato ad esprimerci nei testi con il nostro vissuto.
In quest’ultimo “Half untruths” c’è stato un maggiore ricorso alle ballate, come mai?
Non essendo musicisti professionisti, lavoriamo con calma, infatti, tra un disco e l’altro impieghiamo mediamente tre anni, questo comporta automaticamente anche il fatto che lavoriamo di fino nella scrittura dei pezzi. Il ricorso alle ballate è dovuto al fatto che non amiamo il post rock freddo, anche se avvolgente, preferiamo le sonorità folk.
Proprio là volevo arrivare, perché in questo cd mi è sembrato ci siano diversi accostamenti al Paisley underground.
Si, se si parla di accostamenti sono d’accordo, riconosco questa cosa per come misceliamo i vari generi e poi teniamo molto alla forma canzone, dato che siamo costantemente alla ricerca della melodia.
Il mandolino di “Holes in my maps” porta alla mente i Rem di “Loosing my religion”. Siete in qualche modo debitori del gruppo di Athens?
I Rem sono nei nostri ascolti, ma quando abbiamo composto questo brano non abbiamo pensato a loro. Più semplicemente è che il nostro batterista, Roberto, è un polistrumentista e suona anche il mandolino, che ci è sembrato adatto al brano.
Gli Hogwash hanno subito diversi cambi di organico, con la formazione attuale vi siete finalmente assestati?
Dal precedente cd abbiamo cambiato il bassista e recentemente da trio siamo diventati un quartetto con l’innesto del secondo chitarrista, Edoardo. Con lui le cose si sono complicate, ma in maniera costruttiva, perché per esempio gli accostamenti al paisley underground di cui parlavamo sono dovuti ai suoi intrecci con la sei corde, ovviamente poi quello stile lo rileggiamo a modo nostro. In ogni caso ci siamo assestati e le cose vanno bene così.
Come avviene la composizione dei brani?
Sono io il compositore principale. Diciamo che fino al cd precedente sono stato il deus ex machina del gruppo, ma in quest’ultimo cd mi sono rilassato un po’, grazie al fatto che due brani li ha composti Edoardo e altri due li abbiamo composti insieme. Il fatto che io non sia più il dittatore
supremo del gruppo ha fatto sì che si respirasse un’aria più rilassata. Altro elemento fondamentale che ha permesso questo clima è stato il fatto che non sono stato io ad occuparmi della produzione, che è stata affidata ad Alberto Ferrari, dei Verdena, vecchio amico del bassista.
Come è stato lavorare con lui?
Alberto è un gran casinista, ma ha il pregio di essere una persona molto sensibile e con noi ha avuto la capacità di saper cogliere il nostro pensiero. C’è stata quindi una prima fase di assestamento e poi siamo partiti, divertendoci anche molto. La sua, inoltre, non è stata una produzione classica, in quanto ha riprodotto al meglio ciò che già avevamo fatto in sala prove.
Quale è stata la molla che vi ha convinti a sceglierlo in consolle?
Da un lato l’ultimo cd dei Verdena (“Il suicidio del samurai”ndr.), dall’altro l’aver ascoltato le cose che suona per conto suo, che per me sono strepitose. Roba che quando i Verdena si scioglieranno (uè si parla di scioglimento… cosa c’è di vero? Ndd) sarà utilizzata come bonus track per le raccolte ed i cofanetti.
Per “Half untruths” avete lasciato fuori qualche brano?
No, non abbiamo scartato niente, perché facendo un lavoro di rifinitura, tutto ciò che non va al primo impatto lo scartiamo già in sala prove, quindi siamo arrivati in sala di registrazione con le idee ben chiare di ciò che va bene.
Continuerete a cantare in inglese o passerete all’italiano?
No, resteremo con l’inglese, perché reputiamo che per il genere che facciamo l’italiano risulterebbe troppo farraginoso.
Promuoverete il cd con una tournèe?
Si, abbiamo già cominciato e per il momento restano altre cinque o sei date da fare. A breve uscirà il videoclip di “My dear december” e speriamo che serva da volano, in modo che da gennaio potremo procurarci qualche altra data.Autore: Vittorio Lannutti
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