Pasqua 2006 gli Uzeda, si sono recati al Red House di Senigallia per registrare il loro quinto cd: “Stella”. A produrli è stato Steve Albini. Poco prima che ripartissero per la Sicilia, Giovanna Cacciola e Davide Olivieri, rispettivamente cantante e batterista del gruppo si sono resi disponibile per una lunga ed interessante intervista.
Gli Uzeda sono ripartiti dopo otto anni, come mai questa lunga pausa e cosa è successo nel frattempo?
(Davide Olivieri) Nel frattempo è successo che dopo “Different section wires” avevamo bisogno probabilmente di una pausa per capire che cosa era successo. Con quell’album eravamo arrivati all’apice e avevamo bisogno di una pausa per pensare a cose nuove e a ricaricarci. Pensa che avevamo trascorso dieci anni intensi. Dopo la pubblicazione di “Different section wires” abbiamo suonato moltissimo dal vivo sia in Italia che all’estero dove abbiamo fatto oltre 350 concerti, compresi gli Usa. Avevamo quindi bisogno di tempo per pensare a delle cose nuove. Io e Raffaele (Culisano, il bassista, ndr.) abbiamo completamente cambiato genere, abbiamo fatto una collaborazione con la Nannini che è durata quattro anni, abbiamo fatto anche delle cose per cartoni animati, insomma delle cose completamente diverse, mentre Giovanna ed Agostino hanno fatto i Bellini, un nuovo gruppo negli Usa. Poi nel 2004 gli Shellac, che erano tra i gruppi organizzatori dell’“All tomorrow parties” di Londra, ci hanno chiesto di partecipare. Abbiamo preso spunto per vedere come eravamo dopo questi otto anni ed abbiamo constatato che ci piacevamo ancora, per fortuna, e siamo ripartiti.
Quindi per quegli otto anni non si può parlare di uno scioglimento, ma piuttosto di una pausa.
(D. O.) In effetti si, perché non è stato mai ufficializzato lo scioglimento. Abbiamo soltanto staccato la spina, ci siamo guardati intorno, probabilmente avevamo bisogno di questo.
Dieci anni sembrano un periodo ciclico, fisiologico per la durata media di un gruppo.
(D. O.) Si, considera poi che gli Uzeda sono un progetto indipendente, che si basa soltanto sulle proprie forze, quindi diventa difficile mantenere l’attenzione alta verso le proprie cose. Perché considera che i nostri dischi, nonostante siano brevi, sono molto intensi, nascono da mesi e mesi di scrematura e nascono dal live, dalla session. Non c’è niente di pensato prima e rielaborato. Anche il modo di fare le canzoni, Giovanna subentra sempre un po’ dopo, abbiamo scoperto che anche i Led Zeppelin facevano così. Quindi essendo un progetto indipendente, è normale che dopo che hai fatto determinate cose, che sei riuscito a suonare nei posti più importanti, dove un gruppo indie può aspirare, abbiamo detto, ecco adesso ci fermiamo un attimo, vediamo che cosa succederà, chissà quando ripartiremo. Siamo ripartiti.
Come avviene la composizione dei brani, voi musicisti scrivete le musiche e Giovanna i testi?
(D. O.) Si, avviene proprio così. Generalmente, come dicevo prima cominciamo con una session, la nostra musica nasce da un incontro: da un tempo di batteria o da altro. Poi Giovanna, quando capisce qual è l’idea che si deve andare a sviluppare, interviene e cominciamo a costruire l’architettura di quella che non è la canzone, anzi negli anni abbiamo cercato di distruggere la forma canzone. Abbiamo sempre cercato di avere un approccio estremamente istintivo, proprio di quel dato momento. I nostri dischi, come quello che abbiamo registrato qua, vengono fatti in pochissimo tempo, sono in realtà frutto di session di un giorno e mezzo, quindi non abbiamo perso tempo a cercare chissà quali perfezionismi. A noi interessa fotografare al momento lo stato d’animo e metterlo su disco.
Quindi succede raramente che la sua voce sovrasti gli strumenti?
(D. O.) Si, esattamente, questo si sente anche dal punto di vista tecnico, perché la voce non è messa esattamente avanti, non c’è una forma canzone nella nostra musica, noi, infatti, li chiamiamo brani, pezzi, quasi mai canzoni.
Come si lavora con Steve Albini, anche se non è la prima volta che lavorate con lui?
(Giovanna Cacciola) Benissimo, abbiamo fatto un’ottima esperienza con lui sin dal primo disco. Ora con lui c’è una sorta di empatia far di noi, lui ci capisce al volo e noi capiamo subito quello che vuole dire, per cui è molto gradevole, non è faticoso, non è uno stress oltre al fatto che siamo molto contenti per come registra la nostra musica.
Il vostro rapporto quindi si è sempre più solidificato.
(G. C.) Il nostro rapporto non è solo di lavoro, ma anche di amicizia, di stima. Io ho un rapporto diverso perché non suono, ma canto, per cui è diverso per me. Mi ricordo, il primo disco che abbiamo registrato con lui (“Waters”, ndr.) ero talmente spaventata e nervosa che lui mi ha chiesto “vuoi che facciamo uscire tutti?” Gli ho risposto di sì così siamo rimasti solo io e lui ed è filato tutto liscio. Questo per sottolineare la sua capacità di mettere le persone a proprio agio, lasciandole tranquille, cosa che per me non era avvenuta con un’altra persona precedentemente. Questo per quanto riguarda me, poi ognuno di loro ha un suo approccio.
(D. O.) Si, come ha detto Giovanna, alla fine Steve ha un approccio molto umano, quando entra in sala è semplice, chiaro, del resto lui non è un produttore classico, di quelli che devono mettere le loro idee, lui, anzi, cerca semplicemente di mettere su nastro quello che la band vuole e lo fa nella maniera migliore possibile, perché è uno che ha una bravura, una tecnica di registrazione tale che ti mette veramente quasi tutto di quello che tu vuoi dire. Praticamente non usa nessun effetto digitale, usa pochissima roba, quello che sei, sarai poi su nastro.
Quanto delle esperienze fatte negli otto anni dopo “Different section wires” sono presenti su quest’ultimo lavoro?
(D. O.) Intanto c’è da dire che in realtà non sono stati otto anni, ma quattro scarsi che siamo stati separati, perchè dopo “Different section wires” abbiamo suonato molto dal vivo. Considera che il nostro momento di incontro è effettivamente un momento unico. Noi non facciamo la nostra musica pensando che stiamo andando a suonare come Uzeda e che dentro Uzeda dobbiamo mettere una parte di noi stessi. E’ una cosa particolare, Noi ci riuniamo e lì nasce questo fiore che è proprio unico e quindi c’è tutto, c’è la nostra vita dentro Uzeda, c’è il nostro modo di essere, con tutti i nostri pregi e con tutti i nostri difetti.
(G. C.) Si, proprio per questo a volte è molto lungo l’iter, siamo quattro persone molto diverse, che però quando ci riuniamo per suonare, c’è qualcosa che ognuno di noi sente, non sto parlando di qualcosa di eclatante musicalmente, perché questo non sta a noi dirlo, però fra di noi c’è qualcosa che si crea musicalmente che interessa e che soddisfa tutti quanti e che ci piace, e questo è unico. Per me qualunque cosa si va a fare con altri non è assolutamente la stessa cosa che cantare con loro tre. Non riconosco qualcosa di simile con gli altri, perché so che il rapporto che ho avuto con le atre persone è ben diverso da quello stabilito con Uzeda, perché so che quello che c’è con Uzeda è una storia molto lunga, molto complessa emotivamente, come vita, ci conosciamo da tantissimo tempo, le nostre vite si sono incrociate e si sono accostate moltissimo. Un quarto della nostra vita è stato molto accomunato, quando trascorri quindici giorni di seguito nella stessa casa con gli altri tre, è una parte della vita che trascorre vicina ed inevitabilmente ti influenza. Poi abbiamo questo dialogo musicale che è secondo me assolutamente unico, come diceva Davide.
(D. O.) Si, perché poi il discorso essenzialmente emozionale, quindi poi tutta la parte razionale va in secondo piano, noi quando ci incontriamo, dobbiamo necessariamente avere un rapporto emozionale per tirare fuori qualche idea, altrimenti non la consideriamo. Nelle nostre vite personali poi queste cose non vengono ritrovate se non negli Uzeda. Anche per me è stato così quando ho fatto altre cose. Poi siamo persone che ascoltano tanta musica e ci piace ascoltarne tanta, a più che il genere ci interessa che dietro ci sia qualcosa di vero e ascoltiamo di tutto: classica, pop. Questo arricchisce lo stile di ogni singolo musicista.
In “Different section wires” vi siete espressi con sonorità per certi versi simili a quelle degli Shellac, è stata una cosa spontanea del momento?
(G. C.) Se tu cucini la pasta, puoi cucinarla in mille modi, ma stiamo parlando di pasta. Non credo che il nostro suono sia così simile a quello degli Shellac. Noi conosciamo molto bene il suono degli Shellac, perché lo amiamo, li abbiamo ascoltati centinaia di volte dal vivo, abbiamo suonato insieme tantissime volte e io personalmente non ci vedo niente di simile. Hanno in comune il fatto di essere dei suoni potenti, elettrificati, poiché ci sono di base delle cose simili, il fatto di scegliere con cura gli strumenti, gli amplificatori fa pensare che ci siano delle cose in comune, ma se ascolti attentamente non ci sono tutte queste cose in comune. E’ una somiglianza apparente, trattiamo una materia comune, ma assolutamente non nello stesso modo.
(D. O.) Poi considera che alla fine di un tour fatto insieme, Bob Weston (bassista degli Shellac, ndr.) diceva che sarebbero stati influenzati dal suono degli Uzeda. Forse in Italia per qualcuno può sembrare strano, ma in realtà non c’è stato un avvicinamento dovuto a chissà che cosa, ma in determinati momenti nel mondo succede che uno che vive a Chicago, piuttosto che a Roma, o a Catania o a Liverpool, magari ha lo stesso approccio verso l’arte e dice delle cose molto simili. Come diceva Giovanna sì, la scelta degli strumenti, la cura del suono, quel tipo di suono e la registrazione di Steve ci ha portato ad assomigliare, ma musicalmente sono due cose completamente diverse. Quando compri i dischi e sui siti trovi qualcosa che somiglia a Uzeda: gli Shellac, ma perché fa parte comunque di quel filone che loro chiamano hard rock e in quel tipo di sonorità siamo messi insieme.
Si può paralare ancora di scena catanese?
(D. O.) C’è stato un momento in cui c’erano molte band che sono riuscite a creare qualcosa di più di un singolo episodio. Da questo punto di vista la scena sì, c’era, almeno numericamente. Poi c’è stato qualcuno che su questo ha visto la possibilità di creare un modello da sfruttare di questa Catania come Seattle, dove però effettivamente con tutta la stima per amici come Denovo, Madonia, i Flor de Mal, ben poco avevano a che fare con ciò che succedeva fuori Italia, negli Usa ed in Inghilterra. Perché le Peel session le abbiamo fatte noi, negli Usa siamo andati a suonare noi, ma non basta un gruppo per far parlare di scena catanese, quindi da questo punto di vista è stata una scena italiana con alcuni gruppi catanesi più visibili.
Questo discorso è valido anche per gruppi giovani come i Theramin o i Jasminshock?
(G. C.) Loro forse hanno più difficoltà di quella che avevamo noi. C’è stato un momento in cui a Catania paradossalmente non c’era niente, ma paradossalmente si suonava molto di più, in condizioni pietose, ma quello era un terreno in cui ognuno era libero, senza nessuna pretesa. C’era veramente solo il desiderio di suonare, di sentirsi l’uno con l’altro ed era un periodo musicale molto bello. Una scena musicale è un’altra cosa, è un’altra storia e nella nostra terra non c’è mai stata, perché da noi è molto difficile, per la natura stessa delle persone. Una scena presuppone uno scambio che non c’era e non c’è. C’è un altro tipo di scambio, ci si ascolta l’uno con l’altro. Da ciò che veniva scritto sulla stampa sembrava che le persone più diverse collaborassero, non è vero niente. Quando ci siamo incontrati con Davide suonavamo in due gruppi completamente diversi, ci siamo incontrati nella piazza di un paesino arroccato nell’entroterra siciliano, il posto meno probabile per incontrarsi, questa era la cosa interessante che non succede più: l’incontrarsi nei posti più disparati e scambiarsi opinioni sulle band, o almeno trovavi delle persone che avevano delle affinità con te. Questo era interessante.
(D. O.) Bisogna dire però che qualcuno ha messo dei semi negli anni ’70 a Catania, soprattutto nell’ascolto della musica alternativa, perché tutti quelli che sono cresciuti negli anni ’70 e ’80, grazie a questa eredità, hanno avuto la possibilità di avere la curiosità di comprare musica alternativa, quindi Catania ha avuto la possibilità di avere questa “scena” rock d’avanguardia, rispetto a quello che succedeva in Italia (su questo non ci sono dubbi, lo vedevamo noi quando andavamo a suonare), perché c’è stata molto voglia delle nuove generazioni di sentire e di fare qualcosa di nuovo, di comunicare una forte voglia di cambiamento, che poi prescinde dalla qualità musicale, era semplicemente un approccio e questo secondo me ha giovato alla nascita di gruppi che hanno cominciato a fare musica in Italia, comunque considerata d’avanguardia.
(G. C.) Negli anni ’70 da Catania, andare a Roma, Milano o Londra, costava la stessa cosa, quindi i ragazzi preferivano andarsene a Londra, per cui tornavano con un certo bagaglio musicale. Negli anni ’70 ci si sedeva ancora nel salotto per ascoltare l’ultimo disco di non so chi e lo si ascoltava tutti insieme, era un altro approccio.
(D. O.) L’isolamento ha giovato, perché il fatto di non sentirsi aggregati alla musica italiana, ma sentirsi in un certo senso collegati a qualcosa di diverso, forse in un certo periodo più inglese, poi più americana, ma comunque di appartenere a un modo di sentire la realtà in modo diverso rispetto ai gruppi di rock italiano.
Catania, rispetto alle altre città siciliane era privilegiata nell’ascolto di musica alternativa?
(D. O.) Dal punto di vista della musica rock, sicuramente sì. Già per esempio Palermo che ha prodotto ottimi musicisti, si è mossa più nell’ambito jazz o nella classica. Catania da quando ha cominciato ad avere i primi gruppi pop e rock ha avuto un passo in più rispetto alle altre città. Adesso con il cambiamento di modalità di ascolto della musica l’isolamento è soltanto una scelta.
Avete mai pensato di cantare in italiano?
(G. C.) Se un giorno riuscissi a farlo come io penso si dovesse fare, si, ma finora non ci sono riuscita.
Ti viene più naturale cantare in inglese?
(G. C.) Per me è più semplice, per il tipo di musica che facciamo che lascia più possibilità di modulare la voce. La voce modulata, ogni lingua ha un suo suono unico. L’italiano è bellissimo, quando scrivo un pensiero o un appunto lo scrivo in italiano, ma se devo scrivere una canzone mi viene spontaneo scriverla in inglese. Questo un po’ per formazione mia, perché sono cresciuta con un gusto musicale indirizzato verso le sonorità anglosassoni sin da quando avevo 13 anni. La prima canzone che ho imparato a memoria era “My sweet lord” di Gorge Harrison”. Mi piaceva talmente tanto che ho imparato i suoni di tute le parole, che a loro volta non corrispondevano, era solo il suono. La musica italiana mi piace tantissimo, per le mie orecchie ci sono solo due cantautori che mi piacciono particolarmente: uno mi attrae moltissimo per la sua poetica ed è Fabrizio De Andrè e l’altro mi piace per come riesce ad adattare le parole alla musica: Francesco De Gregori. Per il mio orecchio non ce ne sono altri che riescono a farlo così bene. Quando sento una canzone di De Gregori e sento come lui adatta le parole alla musica, è perfetto. De Gregori fa da sempre delle cose molto vicine alla cultura anglosassone. De Andrè è un esempio di poeticità unica nella musica, De Gregori invece mi intriga di più e mi affascina per il fatto di non essere didascalico, per come adatta le parole alla musica, per la metrica, ha un modo prettamente anglosassone.
(D. O.) Poi c’è anche Battiato che ci ha giocato di più, perché cantava delle formule chimiche, è uno sperimentale, poi è arrivato anche lui alla forma canzone classica. Questi tre sono seconde me tre esempi intelligenti, della musica italiana. Anche Carmen Consoli riesce bene ad adattare le parole con i suoni, tra le donne che cantano in italiano è una di quelle che scrive le cose più interessanti e a cantarle. Siamo abituati alla canzone italiana quando tratta temi sentimentali e romantici ed è facilissimo cadere in quel tipo di tranello e si rischia di essere scontati, quindi è difficile per noi cantare in italiano, perché c’è tanta di quella roba che ci ha influenzato e cantare praticamente dei testi che non hanno quella metrica, ecco perché Giovanna diceva che De Gregori è uno che metricamente riesce a pronunciare delle parole e riesce a creare un equilibrio. Lui è un grande equilibrista.
(G. C.) Dylan ha scelto De Gregori come voce per la colonna sonora di un film uscito l’anno scorso, non a caso. De Gregori ha imparato molto da Dylan
Vi ho fatto questa domanda anche perché ho pensato al percorso degli Afterhours partiti con l’inglese, poi sono passati all’italiano ed ora sono stanno facendo una tournèe in inglese.
(D. O.) Magari un giorno decideremo di fare un disco in italiano, con la forma canzone, ma a modo nostro.
(G. C.) Perché la canzone ha bisogno di un altro approccio, quando faccio una melodia, per me quella è una canzone, a modo mio,
“Stella” il vostro ultimo lavoro, perché in italiano e perché questo titolo?
(D. O.) Perché la stella la vedi da ogni parte del mondo.
(G. C.) Stella anche come nome di persona, perché si utilizza sia in italiano che in inglese.
Avete continuato sulla scia del disco precedente o ci sono delle cose particolarmente diverse?
(G. C.) Come ti ho detto prima noi non pianifichiamo, per noi i nostri lavori non possono mai essere uguali, io non so dirtelo se ci sono affinità tra i nostri lavori e se ci sono quali sono. A volte mi suona molto vicino agli altri, altre diverso, non saprei dirti.
In cosa si può differenziare dall’ultimo?
(G. C.) Sono passati otto anni, in questo si differenzia.
(D. O.) Una cosa deve essere chiara, questo progetto lo viviamo come un fatto estemporaneo, istintivo e così come istintiva nasce la nostra musica come approccio, come fatto compositiva, non è che non abbiamo le idee, certo poi cominciamo a costruire e l’architettura viene fuori, però non è per noi così semplice o così utile mettere a confronto, non l’abbiamo quasi mai fatto, ascoltando poi i nostri dischi ci rendiamo conto che appartiene ad epoche diverse. Secondo me, questo disco, dal punto di vista degli ingredienti è un po’ meno crudo rispetto a “Different section wires”, che appariva molto crudo e diretto. Questo sembra meno crudo anche se non abbiamo fatto nessun tipo di lavoro di manipolazione. Per fortuna c’è stato un superamento di quella crudezza, altrimenti stavamo fermi.
Siete soddisfatti del lavoro fatto?
(D. O.) Si, come ogni lavoro siamo pronti per farne un altro.
Avete lasciato fuori qualche traccia?
(D. O.)No, no, noi mettiamo tutto, non si butta via niente.
Perché avete scelto di venire al Re House per registrare il disco?
(D. O.)Intanto David Lenci è un nostro amico di vecchia data e spesso è il nostro fonico live. Lui ci ha seguito in Usa e questo studio, anche se a distanza lo abbiamo visto crescere. Naturalmente le sue scelte coincidono perfettamente con la nostra idea di studio e naturalmente anche Steve (Albini, ndr.) è rimasto molto contento dello studio, in generale, sia come location, sia come si sta qui. Quindi siamo molto contenti per la scelta fatta. Credo che sia lo studio perfetto per registrare, al di là del fatto che ha delle macchine stupende, quelle analogiche, che sono sempre più rare e che funzionano molto bene, perché spesso gli studi ce le hanno e non funzionano, qui, invece, funzionano molto bene. E’ la dimensione che è giusta, è come uno se la immagina, quindi lunga vita al Re House.
(G. C.) Si, siamo soddisfatti sia dal punto di vista musicale, sia umano, il posto è bellissimo, ci si rilassa.
Autore: Vittorio Lannutti
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