Troppo spesso associamo la parola “pop” agli spregevoli fenomeni da baraccone che la TV e la radio quotidianamente ci propinano. O meglio: che propinano a chi ha ancora il coraggio di accendere la televisione e la radio (meglio non dilungarsi sull’argomento). Il titolo del nuovo disco dei 24 Grana è qui per ricordarci del pop nella sua accezione più “pura” e positiva: la musica pop-olare che da decenni scorre “sotto”, che racconta la vita sintetizzandola in quel meraviglioso mezzo espressivo chiamato “canzone”. E questo è il titolo. Forse non c’era manco bisogno di spiegarlo, che l’avevate già capito.
Il nuovo disco dei 24 Grana (il sesto, senza considerare il primissimo EP) ha secondo me una particolarità importante: è nello stesso tempo il più “italiano” dei loro lavori (per via dei testi, con l’idioma nazionale ben più presente che in passato), ma anche quello più “napoletano”. Immagini della città sono più che mai presenti, esplicite nella descrizione della notte nella periferia abbandonata a sé stessa (“Comm’ è difficile ‘a nuttata si stai ‘e casa int’ ‘e Vele / E’ comme a dicere ‘na notte a Bagdad”), implicite nei colori dell’asfalto bagnato della città che osserva una storia d’amore tra abbandoni e quotidiana arte d’arrangiarsi (“Ce sai sta / sai competere ‘miezo a via / tra la mafia e la polizia), nelle istantanee dall’alto al paesaggio umano del centro storico (“I punk sotto le scale / scolano i soliti litri di birra / Le belle tipe pigolano fuori i bar / E i punk possono solo bere e guardare”), nei titoli di una canzone (“Napule tana”). E’ Napoli vista dai finestrini di un’automobile che gira senza fretta tra le strade, di notte.
Ma c’è molto altro, nei testi: dalla personalissima dimensione di “Canto pé nun suffrì” (la definitiva rivalsa nei confronti di quel tunnel nero espresso da “Metaversus” è tutta nel verso finale: “canto pé nun suffrì / e nun me vesto eguale”), al divertissment di “’A Cascia” (una sorta di gioco linguistico in napoletano… chissà che faccia faranno – chessò – a Pordenone), fino alle sottili ma determinate prese di posizione (“Gli uomini grigi vanno al potere / Preda di un deja vu” è una frase che fa riflettere, di questi tempi) e lucide considerazioni sul presente e il futuro (“Non può esistere una nuova fratellanza / senza dividere la torta da mangiare”).
La musica: sin dal bellissimo intro (“Nella stanza”) si ha l’idea di un suono caldo, avvolgente e diretto. “Canto pé nun suffrì” ha un ritmo incalzante, con la chitarra elettrica che s’insinua languida tra le spesse maglie di un groove pastoso. “Stay on the edge” incastra suoni acustici ed elettrici e vibra di un sound che sa di rock d’annata (quel basso così new wave, quelle distorsioni nel ritornello…). “La neve” è una nenia acustica puntellata di suonini digitali, con una melodia sussurrata carica di pensieri scuri. “Psiconauta” pulsa elettronica, e ha qualcosa di sinistro, nell’arpeggio reiterato, gelido, e nella voce profonda. “Il gattone” lascerà perplesso più di un fan, con quell’arrangiamento di archi che fa viaggiare la mente alla migliore canzone italiana del passato, e un finale che ha il sapore dei dischi di Tenco. Gli accordi e l’assolo finale di “Torno cca’” si nutrono della malinconia espressa dalle parole, e ti rimangono dentro anche quando sul display intanto è scattata la traccia seguente, la numero 10. “Napule Tana” è un reggae solare, dondolante, con la tromba di Marco Sannini che s’inserisce spensierata nel ritmo in levare che i fan della prima ora non vedevano l’ora di riascoltare. Ma con “Luce e luna” (firmata da Giuseppe Fontanella, il chitarrista del gruppo) ci si ritrova di nuovo nell’ombra, tra echi di tradizioni mediterranee che scorrono sottopelle e un arrangiamento articolato, che accompagna, sottolinea, alimenta la tensione emotiva espressa dal canto. In fondo al disco troviamo “L’attenzione”, che suona ancora più “positiva” della versione sentita qualche mese fa (era scaricabile dal loro sito), ed è come spalancare la finestra in una bella giornata, per fare entrare il sole a sciogliere gli ultimi residui dei fantasmi della notte.
Un disco in fin dei conti ottimista, sereno, con una forte propensione alla comunicazione, quasi mai auto-referenziale (com’era un po’ “K Album”), incazzato ma non disperato (com’era “Metaversus”): l’“underground pop” dei 24 Grana scoppia di salute, è vivace come uno scugnizzo dispettoso, e chissà che non dia un po’ di fastidio anche ai “piani altri”, al “mondo-che-sta-sopra”…
Autore: Daniele Lama