Un breve preludio di timidi e delicati arpeggi di chitarra acustica sopra un tappeto di uccellini che cinguettano, voce ancor più sussurrata di un rustico albeggiare. 90 secondi perchè questo paesaggio, dopo qualche secondo di countdown “cronometrico”, sollevi il sipario da un mondo antico, probabilmente già perduto, suggestivo fino a commuovere, riconoscibile come qualcosa che è dentro di noi, nel nostro patrimonio di essere umani, anche se non l’abbiamo mai vissuto in prima persona. Viene da pensare, in maniera mai più nitida, alla straordinaria intuizione dell’uomo di registrare le testimonianze del suo vivere per trasmetterle a chi successivamente occuperà il palcoscenico dell’esistenza.
Non avevo un buon ricordo della Geographic. Qualche ascolto di altri suoi artisti (International Airport, Nagisa Ni Te, Maher Shalal Hash Baz) mi aveva lasciato un’idea di melensa estremizzazione del cocnept folk-acustico (peraltro “etnicizzato”, in forma poco godibile, dagli ultimi due dei citati nomi), restando il solo Bill Wells col suo piano come gradito oispite occasionale della mia tiepida malinconia.
E ora invece irrompe, in tutta la sua straripante discrezione (è un paradosso, lo so – ma è questa la chiave di lettura del disco), il mondo fiabesco e marginale di Nick Palmer, in arte Directorsound. Un bifolco abbarbicato ai piedi della modernità, qual è Plinth, il villaggio del Dorset, Inghilterra, dove è rintanato. Lui chiama appunto “Dorset sound” la sua musica, ma è facile capire che dietro questa sigla si cela non già l’ultimo ritrovato in fatto di world music, ma la metafora di un sentire “a-storico” del passato, probabile ultimo anelito espressivo dell’antica mestieranza di banda di musica errante.
E’ la dimensione collettiva e proto-sociale che emerge in “Redemptive Strikes”, anche se è il solo Nick a suonare tutti gli strumenti, cavando fuori da una limitata e rappezzata “soffitta sonora” (sentite anche che registrazione…) una preziosa “moneta” di nostalgia, con cui ci ritroviamo a giocare a testa o croce, ironia su una faccia, malinconia sull’altra.
Detto di quello che è il ‘Preliminary Strike’, ancor più numerose parole meritano i successivi 40 minuti di musica. ‘Fanfare for Your Museum of Choice’ è il vero e proprio benvenuto in questo ultimo bastione del b/n: sullo sfondo di una grancassa da fiera strapaesana un mandolino e un organetto a manovella (presumo – ma mi piace pensarla così) rutilano lentamente come un’antica giostra con i cavallini bianchi e le bardature caramellate. Segue ‘Centaur vs Centurion’, duplice episodio in cui un marciapiede di provincia francese animato da mandolino e fisarmonica viene, a metà brano, avvicendato da uninatteso e sgangherato cha-cha-cha.
In ‘The Decline of the Ventriloquist Art’ la nostra ideale band si profonde in uno struggente accompagnamento, in giro per il paese, al più caricaturale dei clown, mentre in ‘A Short Story in Two Shades’ ci addentriamo nella sonorizzazione da performance-art muta (sia essa un mimo o una pellicola pre-sonoro). ‘The Beckoning of Jabal’: irrompe la modernità, la perentorietà del progresso tecnico, le macchine e i loro sferraglianti ingranaggi che, nel finale velocizzato da “comica sul tapis roulant”, ricordano i “Tempi Moderni” di Chaplin. E aggiungo, in seguito a più attenta riflessione, un’alternativa chiave di lettura del tema, che fa corrispondere, alle oscure tinte sonore, una chiamata alle armi foriera di disagi ma che si risolve (vedi finale) in una burattinesca (e brechtiana) parodia di milizie in azione, la cui marzialità del marciare si sfalda in uno strascicare di stivali prima e in una “umanissima” diserzione poi.
Esotismi che non ti aspetti: ‘Puss in Boots’ è nientemento che un tango ricco di bòheme transalpina, mentre con ‘The Solambulist’s Dance’ dalla “soffitta” di Nick sbucano banjo e steel-guitar per un ipnotico roots-country (ricordate le musiche di “My Own private Idaho” di Gus Van Sant?).
Rientro nei ranghi. ‘The Rejectee’ è un de-profundis di solo piano nella grigia palude dell’emarginzione (“il reietto”), piena di amarezza da sogni infranti e di rassegnazione verso qualcosa di irrimediabilmente andato a male; mood completamente capovolto dalla successiva e sfavillante coreografia di ‘Hotel Broslin’, con cui Nick dà pittorescamente voce alle pompe della fama, del lusso e della mondanità.
E’ su questo fragoroso e trionfante crescendo che mestamente cala il sipario di ‘When I Fall Asleep It Will Be Forever’, che col suo emblematico titolo fa anche da testamento per questo mondo surrealmente lontano, sì da renderlo vera e propria eredità spirituale. Per chi scrive, e chiunque lo ascolti.
Autore: Bob Villani & Valiant P