Digitare “Bright Eyes” su Google e vedere spuntare più di 11 milioni di pagine…ecco, semplicemente non è da tutti. Te lo puoi permettere solo se ti porti appresso dall’età di 13 anni l’etichetta di genio del rock, e se hai passato quasi metà della tua vita a fare quello che ti riesce meglio, ovvero combinare quelle 7 note in modo da far uscire ogni volta qualcosa di così semplice, eppure, il più delle volte, maledettamente attraente. Te lo puoi permettere se la tua creatività ha la forma e la consistenza di un vaso di Pandora, lo scoperchi e non ti fermi più, ed escono decine fra album propri, EP, collaborazioni, produzioni. Là dove 10 pezzi erano più che sufficienti ce ne metti 15, tanto per gradire.
Così, stavolta, decidi che è arrivato il momento che il mondo venga a sapere che quel ragazzino è così straripante che un disco solo non può più contenerlo, e che – signore e signori – oltre al rock c’è di più. Allora ti concedi due album in uscita simultanea; non un doppio, ma due opere distinte, ognuna delle quali sembra vada in una direzione – “I’m Wide Awake, It’s Morning” vira sul pop folk acustico, “Digital Ash in a Digital Urn” ha toni elettrici ed elettronici –, ma che, alla fine, risultano assolutamente complementari. Operazione pericolosa, se per riempire tanto spazio sei costretto a raschiare il fondo del barile (uno per tutti, il Bruce Springsteen di “Lucky Town” e “Human Touch”); assolutamente normale, invece, se ti chiami Conor Oberst, professione genio del rock, macchinista dei Bright Eyes. Poi ti capita che i due singoli estratti raggiungano primo e secondo posto della classifica di Billboard (non succedeva da 10 anni, sempre tanto per gradire, e comunque mai ad un indipendente), e allora il cerchio si chiude, e quel ragazzino di Omaha, Nebraska, diventa il Dylan del 2000. Chè di Dylan condivide cadenze e scelte: alla famosa svolta elettrica del Newport Folk Festival, qui corrisponde “Digital Ash”; e il parallelo non suoni blasfemo.
‘Lua’ è la chiave di volta intorno a cui gira tutto “Wide Awake”: un’atmosfera indefinita e sospesa, la delicatezza di una sola chitarra acustica, un mood a metà fra la malinconia e la speranza. Un salto indietro, e ‘At the Bottom of Everything’ apre i giochi con uno stream of consciousness ad evocare una festa di compleanno su un aereo che precipita nel vuoto, e i Violent Femmes sono lì a ricordarci che non tutto degli anni 80 è da buttare. Qualche altra perla sparsa. ‘First Day of My Life’ sviluppa una melodia che sa di anni 60, struggente come se Nick Drake si fosse appropriato della penna (e dell’anima) di Conor e ne avesse raccontato non il primo, ma l’ultimo giorno di vita. Con ‘Another Travelin’ Song’ il ragazzo dimostra che ci sa fare anche quando il ritmo sale improvvisamente.
Ma è lo spleen la tonalità nella quale “Wide Awake” si muove più a suo agio, quella con la quale il musicista di Omaha riesce a creare un ponte fra sé e il mondo. ‘Poison Oak’ è droga allo stato puro per chi ama l’emo-folk, Neil Young, per chi vuole farsi del male con una canzone. Si chiude con ‘Road to Joy’, mid-tempo che farebbe la sua figura su un album di Beck, con tanto di coda polistrumentale ad alto tasso di psicosi. È proprio l’eclettismo, la capacità di passare senza colpo ferire dalle atmosfere intimistiche a quelle più oblique a costituire un tratto comune fra i due album…
Autore: Andrea Romito