…ma non è l’unico, perché, ascoltato in profondità, anche “Digital Ash” svela una innegabile ossatura acustica, come se tutti (o quasi) i pezzi fossero nati e pensati alla chitarra e avessero subito un trattamento in fase di produzione. Album artefatto, allora? Assolutamente no, perché – saranno forse i 18 musicisti ai quali i Bright Eyes si accompagnano o più probabilmente le origini folk – tutto quadra alla perfezione, ed anzi Conor riesce ad evitare l’effetto gelo, comune a tanti album di elettronica degli ultimi anni, ovvero quella insopportabile sensazione di straniamento, di falso, di canzone non suonata.
La fragile (e spesso malinconica) delicatezza che caratterizza “Wide Awake”, insomma, è qui, intatta, sotto il cielo plumbeo che avvolge i 12 pezzi, solo meno evidente. Se i riferimenti più immediati per l’ellepì precedente vanno ricercati nel migliore cantautorato americano, qui occorre guardare ai Cure, a partire dall’apertura con un pezzo strumentale (‘Time Code’), per passare alla stupenda ‘Gold Mine Gutted’, che suona Robert Smith lontano un miglio: dalla voce tremolante, alla melodia giocata su pochissime note, alla ritmica lenta e ipnotica, un omaggio in piena regola, e probabilmente la cosa migliore del lotto.
Altrove Conor allunga i propri tentacoli anche su quella grande area grigia che passa sotto il nome di post-rock, sempre con tatto ed eleganza superiori alla media, senza mai indulgere nei facili stereotipi del genere, ed anzi lasciando intendere fra le righe una spiccata propensione per modelli di architettura sonora diversi e distanti fra loro, come gli Yeah Yeah Yeahs (non a caso, Nick Zinner partecipa al progetto), o certi echi di bossa nova (‘Theme from Pinata’). Tutt’altro che un ascolto disimpegnato e distensivo, insomma.
Ma dal genio del rock, cos’altro aspettarsi?
Autore: Andrea Romito