In tour promozionale per Midnight Talks, il nuovo album edito da Urtovox, abbiamo fatto qualche domanda agli …A Toys Orchestra. Seduti su un comodo divanetto del Duel:Beat di Agnano, ecco cosa ci siamo detti.
Avete iniziato la vostra carriera musicale più di dieci anni fa, nel 1998. In tutti questi anni cosa è cambiato nel vostro modo di stare sul palco, di darvi alla gente, di fare musica? Non si tratta proprio di qualche mese…
Ecco, appunto: sicuramente sono cambiate tante cose. All’inizio c’è un maggiore impaccio, poi nel tempo si acquista una certa sicurezza dei propri mezzi e di ciò che si sta realmente facendo, per cui ovviamente la crescita, soprattutto dal vivo, è visibile in modo esponenziale. Questo è sicuramente quello che è cambiato di più, il modo in cui affrontiamo il palco, con maggiore sicurezza. All’inizio, facendo meno live, c’era una certa emozione che faceva tanto gioco. L’emozione ce la portiamo sempre dietro, questo è sicuro, ma adesso siamo sicuramente più “abituati”.
Qual’è il vostro tipo di pubblico? Miscelate parecchie sonorità ed è impossibile racchiudervi in una categoria che possa far capire a priori, prima di sentirvi, che tipo di musica fate.
E’ vero, noi nei dischi tentiamo più che altro di lavorare bene sulle canzoni, nei live invece puntiamo maggiormente all’aspetto della potenza del live stesso. I nostri concerti enfatizzano il nostro lato più energico, più rock. Il pubblico non è mai lo stesso, anche perché suoniamo in diversi punti d’Italia, ed ogni zona ha un diverso approccio alla musica dal vivo. C’è il pubblico più attento e silenzioso, quello che vuole la ballad romantica, quello che vuole fare casino (e vuole che tu gli dia la possibilità per farlo). Ovviamente tutto questo a noi serve tantissimo, non avendo un genere definito e preciso, abbiamo tante sfumature. Questo ci consente di accontentare un po’ tutti.
Proprio parlando di sfumature, hanno definito Midnight Talks, il vostro nuovo lavoro, come l’album più rock della vostra discografia. Questo viraggio compiuto sugli arrangiamenti, è dovuto al tentativo di dare una svolta rispetto ai vostri lavori passati?
Un po’ si, ogni volta che ci apprestiamo a scrivere un disco abbiamo sempre voglia di cambiare. Magari continuare lo stesso discorso, ma di ripartire da un punto diverso, di ritrovare lo stimolo, quel qualcosa in più che ci dia quel brio per ricominciare con entusiasmo. Questo disco è più rock anche perchè tornavamo da un tour lunghissimo e, come ti dicevo, i nostri live sono molto energici. Probabilmente al momento di scrivere eravamo ancora abbastanza caldi ed abbiamo portato nella scrittura quel tipo di feeling tipico del live. Ed è per questo che le canzoni hanno delle ossa molto rock, cosa che poi in studio, quando elaboriamo gli arrangiamenti, viene smussato un po’. Cerchiamo di arrangiarle in modo più originale possibile, ma quando vai a “denudarle” hanno una matrice che è prettamente rock.
Il 23 novembre avete ricevuto il premio per Miglior Disco dell’Anno dal P.I.M.I. e dalla S.I.A.E., è stato un bel risultato. Non volendovi fare la solita e scontata domanda su quanto siete stati contenti o se pensate di meritarlo, vi chiedo: quali altri album nello scorso anno avrebbero meritato di vincere?
L’anno scorso, adesso se te lo dico potrebbe sembrare voglia fare il paraculo, ma non è così, probabilmente l’avrebbe meritato Beatrice Antolini. Ha preso comunque un premio, ma ha portato qualcosa in Italia, con la sua musica, che prima non c’era. E’ una proposta nuova, interessante ed ha delle canzoni di sostanza, oltre ad avere un live molto efficace. Mi è piaciuto molto anche Calibro 35, rielaborare le musiche dei polizieschi italiani l’ho trovata un’altra cosa geniale.
Parlando ancora un po’ del vostro passato: nel vostro tributo ai Beatles del 2003, avete scelto I Am the Walrus. Come mai proprio quel brano, siete legati particolarmente a questo oppure è stata una scelta casuale?
La scelta, in realtà, è stata davvero molto casuale perchè noi con i Beatles possiamo pescare anche a caso, saremmo stati felici. Avevamo visto i pezzi che erano stati già presi e, visto che siamo arrivati in ritardo, proprio all’ultimo secondo con questa compilation, ci avevano consigliato di fare o A Day in the Life o I Am the Walrus. E questa per via dell’aspetto molto kitsch e folle della canzone si prestava particolarmente ai modi e ai tempi di cui disponevamo in quel momento. Abbiamo fatto quel pezzo in un giorno e mezzo, in camera mia, tutto in diretta. Abbiamo pensato che l’unico modo per poter riuscire a farla, era di farci prendere dal feeling della canzone. E così è stato.
Siete di Agropoli, come motivate la scelta di cantare in inglese? Pensate che la sonorità della lingua possa adattarsi meglio alla vostra musica o c’è anche altro?
Questo ed altro. L’altro è che, sembra strano, ma è andata così in maniera naturale. Per generazione noi veniamo dagli anni ’90, e in quel periodo, almeno noi, siamo stati influenzati più da quello che veniva dall’America, con tutto ciò che è l’epopea del grunge e quello che è successo subito dopo, con tutti i nuovi movimenti che erano ancora forti. Abbiamo subito molto le influenze, dal momento che eravamo ancora teenager, iniziando a fare cover e quindi a cantare in inglese. Poi man mano, si comincia a scrivere le proprie canzoni con una certa serietà, finchè non diventa naturale cantare in quel modo. E’ una questione di background.
E’ stata una scelta naturale, quindi, non a seguito di una decisione oculata.
Si, molto naturale, la musica non era un lavoro per noi. Lo facevamo solo per divertirci, quindi non c’era motivo di ponderare e di studiare un motivo per cui fare questa scelta.
Guardando un po’ al futuro, invece, siete in tour promozionale per l’album. Dopo questo tour, avete intenzione di iniziare qualche featuring o magari un progetto in italiano, oppure questo è da escludere?
Noi siamo abituati, proprio in base a quello che dicevo prima, a non ponderare troppo sul futuro. Cerchiamo di guardare al massimo al futuro immediato, ma ci concentriamo principalmente su quello che facciamo volta per volta, per cui non abbiamo idea di quello che succederà. Magari il progetto in italiano non è attualmente in previsione, ma non lo escluderei completamente. Mai dire mai, anche in questo caso. Non vorrei poi smentirmi tra un anno, o due. L’unico progetto a lungo termine è solo quello di continuare a fare dischi, non importa in che forma o in che modo.
L’importante, quindi, è farli uscire. Facendo riferimento ad un vostro pezzo che mi è piaciuto particolarmente, Hengie: queen of the borderline, da Cuckoo Boohoo, vorrei chiedervi da dove nasce, considerando la sensazione quasi di sehnsucht che emana dal pezzo.
E’ strano, perché magari spesso nasce avendo degli spunti dalla realtà, dalla televisione, da qualcosa che si è visto in strada. Ma il personaggio, la storia, non è la biografia di nessuno in particolare. E’ frutto della mia immaginazione. Ogni tanto nei dischi creo qualche personaggio, così come in Cuckoo Boohoo c’era questo, nel disco successivo c’era Mrs. Macabrette, in Midnight Talks ce ne sono un altro paio. Hengie nasce appunto dal frutto dell’immaginazione rapportata alla realtà.
Anche inconsciamente…
Esatto, però, ecco, parlando comunque di un personaggio con dei problemi caratteriali, con la sindrome di Borderline, si rifà comunque a modelli che si riscontrano comunque nella realtà.
Ti lascio con l’ultima domanda: ascoltando un po’ tutti i vostri pezzi, mi è saltato all’orecchio un bella linea di archi. E’ stata una scelta puramente estetica?
Noi cerchiamo sempre di vestire la canzone nel modo più consono, siamo abituati comunque a vestire e svestire la canzone per capirne l’essenza che le rende migliori, almeno a nostro avviso. In un certo senso cerchiamo di dare alla canzone quell’aspetto che più può enfatizzare il suo mood, la sua espressione al meglio. C’è anche da dire che in questo disco abbiamo fatto una scelta precisa, ovvero indirizzare l’arrangiamento verso degli strumenti che non usiamo di solito. Sono strumenti che non suoniamo noi di persona, ci siamo avvalsi della collaborazione di orchestre di fiati, di archi, lap steel…tutti amici. Enrico Gabrielli ha scritto tutte le partiture per orchestre, è venuto a suonare con noi anche Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours, i fiatisti di Vinicio Capossela, il suo chitarrista. Gente con le spalle larghe con cui siamo entrati subito in un feeling, creando un entusiasmo ed un coinvolgimento giusto. Ho voluto vedere in loro, prima che l’aspetto tecnico, quello emotivo. Il giusto coinvolgimento, sentire questo disco sulla nostra pelle così come lo sentiamo noi dei Toys, ed è stato proprio questo che ha contribuito a far uscire un disco così ricco. E’ l’indice del fatto che loro si sono divertiti ed hanno gradito la collaborazione.
Autore: A. Alfredo Capuano
www.myspace.com/atoysorchestra