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Intervista: The Decemberists

di Redazione
16 Dicembre 2013
in Interviste
Tempo di lettura: 5 minuti
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“Castaway And Cutouts” (2002), “Her Majesty” (2003) e “Picaresque” (2005) sono stati i tre album (non contando i vari e.p. occorsi nel frattempo) che avevano destato un certo interesse attorno al nome dei Decemberists. Un trampolino di lancio che la band di Portland ha sfruttato per fare il grande salto verso il mondo dorato delle major (in questo caso la Capitol), abbandonando quella Kill Rock Stars (un segno del destino…) che tanto aveva contribuito alla causa dei nostri. Al cambio d’etichetta, comunque, non è corrisposto nessun evidente “mutamento genetico” che possa far gridare allo scandalo. “The Crane Wife“, il nuovo lavoro del gruppo è anzi, come d’abitudine, un complesso ed, a tratti, lungimirante raccolta di canzoni tematicamente, più o meno, legate fra loro dall’iniziale ispirazione, presa in prestito da un’antica leggenda giapponese. Gli innumerevoli spunti offerti dal disco ci sono stati gentilmente svelati da John Moen, batterista nonché new-entry del combo statunitense:

Oggi è il primo di Dicembre, un giorno perfetto si direbbe per intervistare il compente di un gruppo chiamato, manco a farlo apposta, i Dicembrini…
Hai ragione, sei stato davvero fortunato! (risate generali, ndr.)
Tralasciando queste simpatiche quisquiglie, non deve essere stato altrettanto rilassante concepire “The Crane Wife”, il vostro primo album ad uscire per la major Capitol…
Non credo che la Capitol ci abbia messo sotto contratto nella speranza che saremmo diventati “the next big thing” del panorama internazionale oppure avremo prodotto chissà quali hit-single. Non che, potenzialmente, i Decemberists non ne abbiano le capacità ma abbiamo altre priorità come gruppo. Nel corso del tempo ci siamo creati un discreto seguito in patria e fuori. Abbiamo una personalità ben definita che di certo non è stata intaccata dalle eventuali pressioni della nuova label. Magari se fossimo stati una band alle prime armi per loro sarebbe stato più semplice aver voce in capitolo nelle scelte artistiche, però, così non è stato. Insomma per noi il passaggio d’etichetta discografica non è stato assolutamente traumatico.
Questa tua affermazione è pienamente confermata dal fatto che nel disco avete inserito sia brani lunghi e complessi come “The Island” che altre tracce più immediate come il primo singolo “O, Valencia”. Del resto anche in passato questa è stata una delle caratteristiche principali dei vostri lavori. Tu, come musicista, da quale di queste due tipologie di canzoni ti senti maggiormente attratto?
A livello personale, mi sono sempre piaciute le pop-song con delle belle melodie. Certo che come batterista e musicista, mi sento molto coinvolto da brani in cui ci sono vari cambi d’arrangiamento. Avere la possibilità di stare in un gruppo dove si sperimenta molto in entrambi i sensi è assai stimolante. Non porsi limiti di sorta è una delle qualità che apprezzo di più dei Decemberists.
Per grandi linee, “The Crane Wife”, può essere considerato una specie di concept album? Mi spiegheresti meglio qual è il filo conduttore del disco e di cosa parla la leggenda giapponese da cui avete tratto spunto nel redigere i testi del disco?
Sebbene l’album si intitoli “The Crane Wife”, non tutto il disco parla di questo antico racconto tradizionale giapponese, scovato dal nostro principale songwriter, Colin Meloy. In esso si narra di un contadino giapponese che si innamora e sposa una donna, creatrice di meravigliosi abiti con delle piume che, in realtà, sono sue. Quando il marito scopre il segreto, lei torna ad essere un uccello e vola via. Questa storia offriva innumerevoli motivi d’interesse, tanto che Colin ha scritto tre brani su quest’unica storia che poi sono finiti tutti sul disco. Leggendo attentamente le liriche si capisce che i temi trattati sono anche altri, perciò non mi sembra corretto parlare di concept-album.
Non è la prima volta, però, che dividete una singola canzone in più parti.
Nel caso specifico, come ti dicevo prima, Colin aveva scritto tre diverse versione della canzone “The Crane Wife” che voleva riunire in un unico pezzo, creando una specie di piccola tragedia. Uno dei due produttori, Chris Walla (chitarrista nonchè producer dei Death Cab for Cutie) ci ha convinto a separarle, mettendo la terza parte come brano d’apertura, a sua detta perchè rendeva bene l’intero “mood” del disco.
Anche nell’ep “The Tain” avevate separato lo stesso brano in cinque movimenti diversi.
E’ semplicemente un modo per non stereotiparsi troppo, rimanendo legati ad un unico schema compositivo.
E’ solo Colin che si occupa delle liriche o anche voi avete voce in capitolo?
E ‘ Colin che scrive i testi e gli accordi di base delle canzoni che, successivamente, vengono sviluppate, musicalmente, da tutto il gruppo.
Lo so che pezzi come “When the War Came” o “Yankee Bayonet (I Will Home Then)”, pur parlando di guerra, non sono direttamente riferiti agli attuali conflitti in Iraq o in Afghanistan. Ritieni, però, che questi eventi abbiano inconsciamente colpito l’immaginario letterario di Colin? Più in generale in che modo valuti la politica estera dell’amministrazione Bush?
E’ impossibile non tenere conto dei danni che combina l’amministrazione Bush in giro per il mondo! (risate, ndr.).
Penso che i brani che citi siano delle considerazioni sulla guerra in genere e non su accadimenti specifici. Certo è possibile darne una chiave di lettura come la tua ma non mi sento di affermare che sicuramente sia come dici tu. Dovresti chiederlo direttamente a Colin, visto che io sono solo il batterista della band (altre risate, ndr.).
Ok, meglio cambiare discorso…l’amore è un altro soggetto che ricorre spesso nelle vostre canzoni ma il tono che le contraddistingue è sempre drammatico e, raramente, in esse c’è un “happy-end”. Un siffatto atteggiamento quanto aiuta a creare un più intenso impatto emotivo?
Essendo entrato da poco in formazione, non credo di poter rispondere adeguatamente a questa domanda! (ennesima risata).
Va bene, te la sottoporrò nuovamente al prossimo disco e spero che sarai più preparato… Lo stile musicale dei Decemberists è assai policromo e strutturato tanto da far presupporre che vi sia un gran lavoro sul suono e gli arrangiamenti, prima della pubblicazione di un vostro album.
Riguardo “The Crane Wife”, non c’è stata una grossa pre-produzione. In realtà Colin aveva realizzato delle demo allo stato embrionale. Quando c’è le ha date, abbiamo avuto circa due settimane per ascoltarle e buttare giù delle idee. Successivamente ci siamo ritrovati in studio con gli altri membri del gruppo ed i due produttori (Chris Walla e Tucker Martine, ndr.) ed è lì che il tutto ha preso la sua forma definitiva.
All’interno dei Decemberists vige una certa democrazia riguardo le scelte da prendere o è a Colin che spetta l’ultima parola? Quanto vi è stato d’aiuto il contributo dei due produttori Chris Walla e Tucker Martine?
Essendo Colin il principale songwriter della band, la sua opinione conta non poco. In altre situazioni, mi sono trovato coinvolto in gruppi in cui forse c’era più unanimità ma non sempre questo atteggiamento dà buoni frutti. Chris e Tucker sono stati molto importanti perché, come accennavo in precedenza, gran parte del disco è nato in studio e se non ci fossero stati loro due a dar vita alle nostre idee ed ai suoni che volevamo ottenere, avremmo incontrato molte difficoltà in più. Sia in fase di registrazione che di mixaggio, la loro esperienza è stata per noi fondamentale.
In ultimo gradirei che mi spiegassi come sei entrato a far parte dei Decemberists.
Io e la tastierista Jenny Conlee avevamo un amico in comune. E’ stato lui a dirmi che, dopo la registrazione di “Picaresque”, i ragazzi stavano cercando un nuovo batterista. All’epoca feci un’audizione e fui preso. Ho partecipato anche al tour che promuoveva quel disco e da allora sono entrato in pianta stabile nel gruppo.Autore: LucaMauro Assante
www.decemberists.com

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