Anche se per il primissimo piano sparato sul retro della copertina dovrebbe farsi un esame di coscienza e poi picchiare il fotografo, Otto, può comunque ampiamente consolarsi con un nome-numero che fa già simpatia (forse penso troppo ai Simpsons…) e soprattutto col suo essere musicista in evoluzione che fa presto, su disco, a rivelare ricchezza di qualità e versatilità. Come definire questo terza parte di trilogia, dopo “Samba Pra Burro” e Condor Black”? Etnorock? popblues del deserto? electrocaipirinha?? drum ‘n’ folk? passo. Fatto è che le spinte nuove il suo sound – siamo al terzo album – si gode la freschezza di spinte nuove (mettendo però in ripostiglio almeno cinque delle 14 tracce).
Uno: Otto canta nella lingua della saudade, quel portoghese che quando è sulle bocche dei lusitani se ne va in assoli di fado e quando naviga dall’altra parte dell’Atlantico in terra paulista, assume, nell’immaginario, tonalità di allegra, arcaica, tristezza.
Due: nasce percussionista e pertanto va da sé l’estrema perizia a tessere i tempi ritmici più vari: senti l’incipit “Lavanda”; la salsabeat di “Nebulosas”, il lacrimoso stile ballad-ultimo falò d’estate di “Pra ser sò minha muler” e “Dedo de Deus”, che portano echi dei Gomez più rilassati.
Tre: la contaminazione equilibrata. In “Amarelo Manga” si rappa anche (BNegao mc); su “Pra Quem Tà Quente” scarabocchia due scratch dj Primo. Si srotola invece tra dub e titillamenti rocksteady “Quem Sabe Deus”. Si cambia registro senza spiazzare ma cavalcando abilmente un unico stile.
Più si ascolta più si nota e ri-nota un’architettura di sensazioni “senza gravità permanente” (appunto “Sem Gravidade”) estremamente distanti l’una dalle altre. Disomogeneità? No, desiderio di comporre, suonare, cantare, ballare, ciò che ci piace di più.
Autore: Sandro Chetta