Elio Martusciello rappresenta una tipologia di artista difficilmente etichettabile: Musicista, artista visivo, docente di Musica Elettronica e Composizione Elettroacustica presso il Conservatorio di Cagliari, vive la propria creatività con la consapevolezza e la lucidità sufficienti a privarsi di ogni schema e pregiudizio. E’ ad Interferenze nei panni del sonorizzatore di immagini. Nella foresta di San Martino Valle Caudina ci fornisce un approfondimento sul visibile, sull’udibile e sul loro contrario.
Cosa ci farete ascoltare, e vedere, stasera ad Interferenze 2006?
Stasera sono ospite della performance di Salvatore Borrelli, è lui che ha lavorato al video, è lui che è titolare del progetto. E’ un modo di lavorare questo, che mi piace molto, quello di intervenire sul lavoro di terzi col suono, un’esperienza felicemente intrapresa in passato già con Ossatura: lavorare senza conoscere il tipo di struttura con la quale di volta in volta devo confrontarmi.
Questo tipo di esperienze apre uno squarcio interessante tra musica e suono, e di conseguenza quella che può essere l’attività di un sound designer rispetto a quella di un musicista in senso stretto, come percepisci questa differenza, ed a quale polo dello spettro ti collochi?
Trovo molto difficile il lavoro sull’immagine, in quanto quella dell’immagine è una disciplina profonda dotata di un suo complesso sistema di segni, che costituisce un patrimonio vastissimo. Dal momento in cui le tecnologie hanno reso possibile lo scambio tra queste due discipline da un lato ha reso affascinante questo rapporto, dall’altro l’ha esposto al costante rischio di banalizzazione e standardizzazione delle soluzioni sonore applicate alle immagini.
Per me quella del suono è una maniera di disimpegno nei confronti dell’immagine, un modo per lasciare intatta l’autonomia di ogni singolo codice.
Mantenendo i due universi in accoppiamento strutturale…
Cercando di agire proprio sullo scarto, sul plus che può scaturire solo dalla differenza. E’ per quello che non me la sento di costruire un codice.
Quindi per te il suono è una dimensione specifica della musica, o è una disciplina a sé?
E’ sicuramente qualcosa di diverso dalla musica. Tutte le teorie fatte sulla coincidenza tra musica e suono sono completamente svuotate di significato alla prova dei fatti. C’è il rischio di una forzatura continua: fare rientrare tutto nella dimensione della musica così come la conosciamo. Ad esempio, Françoise Bayle nella sua definizione di acusmatica ha sempre evitato di parlare di musica acusmatica, proprio perché la riteneva un’arte dei suoni totalmente autonoma ed indifferente ai codici propriamente musicali. Insomma, ci possono essere diverse forme d’arte sonora, così come esistono diverse forme d’arte visiva.
Per cui il tipo di lavoro musicale che fai ha una componente spaziale e materica?
E’ inevitabile. Nel momento di realizzazione dell’artefatto sonoro si passa da una dimensione temporale ad una spaziale, nel senso che si attua necessariamente un percorso strategico che, dalla dimensione materica delle singole componenti, conduce alle relazioni strutturali dell’architettura finale.
La differenza allora sta nella consapevolezza delle caratteristiche di materia e di spazio della musica.
Esatto. è la parte più dura del lavoro, si è sempre alla ricerca di una verifica.
Il tipo di artista che tu rappresenti è sempre a cavallo tra il compositore di musica concreta “colta” ed il Dj. Tu a quale ti senti maggiormente affine?
E un universo in continua espansione, collocarsi è un’operazione ideologica, inattuale di fronte all’attuale parcellizzazione dei saperi. Credo che sia giusto sperimentare e verificarne i risultati senza preconcetti.
La differenza tra questi due mondi probabilmente non sta tanto poi negli esiti delle sperimentazioni, ma nei percorsi, nell’approccio. Normalmente si assiste nell’elettronica ad una creatività guidata e suggerita dai software. Tu in che modo ti interfacci con le macchine nel tuo processo creativo?
Il fatto che le tecnologie influenzino il lavoro del musicista è qualcosa di sempre presente nella dinamica dell’ uomo con il mondo, non che prima non ci fosse. Oggi comunque le tecniche e le tecnologie hanno superato una soglia tale che rischia di annullare la libertà dell’individuo, che troppo spesso si limita a muoversi tra le patch preconfezionate dagli ingegneri. Un aspetto di cui mi accorgo tramite l’esperienza di insegnamento al conservatorio, dove è molto difficile coniugare sapere tecnico e creatività. Spesso, è facile trovare uno squilibrio che pende a favore dei tecno-saperi.
Allora come avviene il tuo percorso creativo?
In questa fase mi interessa provocare l’errore, prendere le distanze. Molto spesso, come nel set di stasera, non c’è nemmeno una vera e propria composizione, c’è semplicemente applicazione.
Il tentativo di fare un live con una musica che non è stata mai veramente live…
Lasciar andare le cose. Far parlare la macchina con il proprio linguaggio, con le sue interferenze, le sue modalità. Questo mi accade spesso anche quando uso strumenti acustici come la chitarra, cercando il feedback prima di tutto, senza quasi utilizzare il sistema delle note.
Il feedback è una sorta glitch degli strumenti non elettronici, è un altro modo di inceppare la macchina.
E’ il tentativo di costruire il meno possibile l’artefatto artistico-tecnologico, perchè nell’elettronica la complessità è tale che rischia di renderla un’esperienza ipocrita, falsificante. Ciò che vuole apparire come scelta consapevole ed autonoma è spesso inconsapevole ed indotta.
L’indeterminatezza come libertà, come in John Cage. Cosa farai in futuro?
In studio con Ossatura, Taxonomy e Schismophonia, tre delle formazioni con cui sono maggiormente attivo, più a breve farò una serie di concerti in solo nell’est Europa ed in Canada dirigerò un ‘orchestra.
E come insegnante, cosa innanzitutto cerchi di insegnare ad i tuoi allievi?
Il mio interesse è quello di allargare i loro orizzonti, dandogli quanti più input possibili, cosa questa che va a scontrarsi con un assetto eccessivamente tecnicistico dei corsi di studio. Questo è stato il primo anno in cui siamo riusciti ad avere un corso di filosofia della musica, per discutere e riflettere sulla musica, come momento preliminare alla creazione.
Allora chiudiamo con una nota filosofica: Merleau-Ponty rifletteva su quanto di invisibile ci fosse nel visibile e viceversa, per te, dove comincia l’udibile rispetto al non udibile?
Potremmo pensare al rapporto tra l’udibile e il non udibile, come quello che si instaura nel contratto audiovisivo e che va sotto il nome di “valore aggiunto”. Potremmo immaginare di scambiare la direzione del tempo e questo valore da “aggiunto” si trasforma in “fondativo”. Quel valore intessuto di assenza e di “pregiudizio” trasformerà inevitabilmente ogni possibile rapporto successivo, mettendo in moto un campo di percezione sempre inedito, nuovo.
Autore: Pasquale Napolitano