“The Ascension”, capolavoro stampato originariamente nel 1981, è stato ristampato dalla Acute Records, con in aggiunta un breve video (“Solo 1978”) e le note nel booklet di Lee Ranaldo dei Sonic Youth (che prese parte alle registrazioni del disco). Glenn Branca è una figura fondamentale della scena no-wave newyorkese di quegli anni: un periodo in cui la città era scossa da un fermento creativo i cui protagonisti erano i giovani artisti (non solo musicisti) cresciuti a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, che invasero la grande mela con il loro carico di “urgenza espressiva”, spesso comunicata attraverso forme radicali, estreme, poco inclini ai compromessi con i gusti del pubblico, che infatti in linea di massima restò indifferente, forse non ancora pronto per apprezzarne il valore.
I cinque brani in questione, suonati da una “band ridotta” (ricordo che Branca si è cimentato con vere e proprie sinfonie, come la “Symphony N.3”, concepita per tredici musicisti!) composta da (ben) quattro chitarre, basso e batteria, mostrano la capacità del Nostro di coniugare una forma essenzialmente “rock” (neanche poi tanto “inaccessibile”) con strutture che ricordano da vicino quelle della musica classica, o che citano i maestri del minimalismo (Reich, La Monte Young…). E’ tutto un rincorrersi di chitarre (“Light field”), che come voci di un coro (le diverse accordature donano ad ognuna un’identità unica e inconfondibile) dialogano e s’incastrano, intrecciano riff tesi come rasoiate (“Structure”), rumoreggiano inquiete tra sibili, feedback e stridori (“The spectacular commodity”), o creano impenetrabili nebulose sonore (la prima parte della monumentale “The ascension” è puro “shoegaze” dieci anni prima) in cui i suoni si fondono in un tutt’uno organico. Rumore, caos e rigore formale, vortici catartici e mantra ipnotici, squarci melodici e suoni ossessivi: il tutto trova un suo perfetto equilibrio in una musica che sembra costretta, ingabbiata in un supporto (il disco, il cd) che ne limita certamente l’impatto emotivo sull’ascoltatore, anche – come osserva Ranaldo nelle note interne – a causa dell’impreparazione dei tecnici dell’epoca nel rapportarsi ad una “cosa” del genere. Essere lì, presenti nei locali di New York, quando Branca e la sua band torturavano chitarre e amplificatori suonando a volumi inumani davanti al pubblico sbigottito, sarebbe stata un’altra storia. Ma…concludo con le parole di Ranaldo: “Il mio suggerimento è quello di alzare il volume quanto più è possibile, chiudere gli occhi e…immaginare”.
Autore: Daniele Lama