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“Un fallimento perfettamente riuscito”

di Redazione
8 Dicembre 2021
in Cinema
Tempo di lettura: 5 minuti
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L’immaginazione quale archetipo e forza generatrice che si contrappone all’incompiutezza: una dicotomica che “Un fallimento perfettamente riuscito” (un film autoprodotto dall’Ex Asilo Filangieri di Napoli, con la regia di Gian Luca Pellegrini – anche interprete – e sceneggiatura di Roberto Cirillo – anche interprete) ha, in esatta sintesi, rappresentato, tanto da vincere la sezione Spazio Campania della 46esima edizione del Festival Laceno d’Oro.

Puntuale e stringente la narrazione di quanto l’esistenza umana tenda, per gli accidenti della vita, all’incompiuto e di come, in contraltare, l’immaginazione, che ha consentito all’Homo Sapiens il salto evolutivo, sia necessaria spinta vitale per la sopravvivenza, tanto nel “sogno di un’illusione” (per parafrasare Sigmund Freud), quanto nella concreta progettualità; un’immaginazione, quindi, che ha in sé, al contempo, il valore platonico di εἰκασία e quello “produttivo” come teorizzato da Kant prima e ridefinito da Fichte poi.

Di pregio, in “Un fallimento perfettamente riuscito”, la crasi tra la matrice documentaristica e quella cinematografica di pura finzione che ha reso impercettibile il limite tra film, film nel film, backstage e documentario; il tutto senza ledere lo sviluppo diacronico della trama.

Non pochi gli spunti di riflessione.

Se il precariato, che accompagna in modo genetico la nostra contemporaneità, si rapporta all’altrettanto ostile incertezza imposta da un’inattesa e sopravvenuta pandemia, l’annosa irrisolta contrapposizione (in arte) tra produzione e autoproduzione introduce un tema di particolare interesse, soprattutto nella definizione dell’artista, del suo ruolo e della sua qualificazione di “lavoratore”, libero e imprenditore di se stesso o “subordinato” a una struttura gerarchica.

La riuscita del tutto è stata, poi, indubbiamente dovuta al contributo “fattivo” dato da Fabrizio Elvetico che, oltre a curare il suono, ha preso parte al film, evidenziando, tra l’altro, la significativa necessità che hanno le arti tutte (e con esse aggiungerei l’intera sfera relazionale umana) di raffronto diretto con coloro che fruiscono della rappresentazione artistica stessa.

Altrettanto fondamentale l’apporto degli ulteriori interpreti: Andrea De Goyzueta (che ha mostrato padronanza del ruolo, frutto anche della sua grande esperienza teatrale), Angela Dionisia Severino, Claudia Sacco, Lorenzo Corona, Mariapia Valentini, Maria Vittoria Rossi (suo anche il live painting), Stefania Accardi (anche organizzatrice e segretaria di edizione); con loro, oltre alla nota Simona Infante (color grading): Arianna Caserta (press agent), Armando Andria e Claudia Sacco (consulenti di produzione), Elena Cepollaro (grafiche), Fulvio Padulano (operatore), Gianvito d’Orio e Marie Thérèse Sitzia (luci), Giuseppe Pisano e Paolo Montella (suono), Luca Serafino (scenografia).

D’impatto e funzionali le musiche dell’Illachime Quartet (alcune eseguite dal vivo, nel corso delle riprese, da Elvetico), tanto didascaliche quanto evocative.

‘Nella stratificazione delle vicende che sono narrate, si suggerisce l’impressione di destreggiarsi quasi in un ipertesto di persone e luoghi, discorsi e sentimenti, con vari piani di realtà – si legge nelle note di regia di Gian Luca Pellegrini – Si è detto che il nucleo fondante del progetto aveva come contesto il boom turistico al centro storico di Napoli. Siamo nel 2018, volevamo osservare quella grande parte di lavoratori, coinvolti nei vari ambiti del turismo, che vedevano aumentato il loro tempo di lavoro, lasciando invariata la paga. Con un gruppo di amici dell’Asilo Filangieri abbiamo messo su una piccola troupe cinematografica – questo è retroscena – cominciando a girare un piccolo film, senza budget. La storia che avevamo scelto di rappresentare era già di per sé metacinematografica: un regista che costruisce il proprio film sulla vita della sua protagonista, che quasi glielo dipinge addosso. Si intuisce l’imbarazzo quando più di due anni dopo, per tentare di concludere il progetto, che avevamo già in parte girato e montato, ho aggiunto ai primi due un altro livello, ancora più reale, rappresentato dalla riunione della nostra troupe. Di mezzo c’è stata, è risaputo, la pandemia. Non si può nascondere che questa abbia giocato un ruolo e che il processo seguito possa sembrare semplicemente un’operazione di salvataggio. Ma è con sforzo di resilienza che abbiamo deciso di insistere, giocando a inscenare una piccola ode all’immaginazione. Perciò anche nell’ultima fase, piccoli elementi di finzione permangono attorno alla nostra vera troupe. Forse è più un pastiche, come potrebbero suggerire i passaggi nella scelta del colore, ma quello che abbiamo provato a mostrare, con questo pseudo documentario, è un gruppo di persone, riunitesi con l’intento di raccontare la precarietà caratteristica della città in cui vivono, che deve fare i conti con la revocabilità della propria esistenza informale, in un momento tanto precario a livello globale’.

‘Il valore più significativo del film – dichiara Roberto Cirillo – credo stia nel fatto che la penuria di mezzi, dovuta al suo esser indipendente e autoprodotto, sia più che compensata dalle energie e dalla determinazione del gruppo che ha alle spalle. La tesi che persegue il personaggio del regista nel film è come sia intrinseca a ogni rapporto lavorativo, anche se amicale, specialmente se informale (e non è un caso che questi film nasca proprio a Napoli), una dose di violenza simbolica. Tuttavia, la lavorazione del film contraddice questa tesi, essendo, nonostante (e con un’ironia voluta) il titolo, arrivato il film a una conclusione. E vi è arrivato non solo non rinunciando all’assenza di ruoli formali fra i suoi partecipanti, non solo senza incrinare i rapporti intercorrenti fra gli stessi ma, anzi, rafforzandoli e cementandoli. Intorno al film, in questi anni, è nata, spontaneamente e senza essere un mezzo ma un fine di per sé, una comunità emergente, una factory che, dal basso, si è unita in uno sforzo collettivo, all’interno del quale si perdeva la matrice del contributo di ognuno, e le differenze non si appianavano ma esaltavano, pervenendo a un risultato finale frutto del genio collettivo e impossibile da ricondurre a un singolo componente piuttosto che un altro, superando in grandezza l’apporto di ognuno. Tutto ciò è stato possibile da anni di ricerca, in tal senso, e sperimentazione, all’interno dell’asilo, che ha messo in luce la sua vocazione di centro di ricerca permanente di un altro modo di coltivare relazioni (cooperative e non competitive, dialettiche e non conflittuali), attorno a un modo altro di esaltare le alterità culturali e le sensibilità di tutt*. Un centro di produzione di arte non sistemico, non indipendente (rinunciando all’esaltazione del singolo, dell’ego e del narcisismo che creano arti ridondanti, autistiche, egotiche e in ultima analisi inutili). Da questo rifiuto dell’individualismo come indesiderato lascito della mutazione capitalista, nasce la consapevolezza di un noi, e la scelta di esser centro di produzione interdipendente. Da un rifiuto del modello di produzione disumanizzante, con un atto di disobbedienza civile e creativa, sorge una comunità fondata sull’interdipendenza consapevole di sé per la quale non conta più il risultato finale, ma il percorso. Si può sbagliare, anzi si deve, si può anche fallire, ma sempre curando l’altro che cade con noi, per rialzarsi insieme; che è l’unico modo di farcela veramente. Questo è ciò, per me, di cui parla questo film e, facendolo, in un esercizio metatestuale, dimostra esser possibile’.

autore: Marco Sica

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