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“Fearless Movement”: un Kamasi Washington non più ostaggio di se stesso

di Marco Sica
10 Maggio 2024
in Focus On, Primo Piano, Recensioni
Tempo di lettura: 7 minuti
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Per fugare ogni dubbio sull’oggettiva valutazione di “Fearless Movement”, ultimo lavoro discografico di Kamasi Washington (edito per la Young recordings), possiamo da subito serenamente definirlo meno “monumentale”, più trasversale e indulgente verso un Washington non più ostaggio di se stesso; d’altro canto Washington è giunto a un livello di notorietà, di mezzi e di risorse che, unite a una indubbia tecnica e scrittura, oltre che ad una capacità di cogliere gli umori del pubblico e del mercato, non poteva che portare alla realizzazione dell’ennesimo disco perfettamente “confezionato” e, in questo caso, anche dal “calibrato spessore” .
 
Purtroppo il pregio Washington è anche il suo limite più grande poiché dimostra come non abbia inteso usare il cuore e l’anima, attualizzando un linguaggio musicale puro e senza compromessi che poteva vedere in lui il giusto interprete.
 
In attività fin dai primi anni del 2000, è con l’enfatico “The Epic” del 2015 (che ha in seno anche rivisitazioni di precedenti composizioni: “Changing Of The Guards”, “Askim”, “The Next Step” da “Live At 5th Street Dick’s”, “The Rhythm Changes” da “The Proclamation” …) che Washington si impone, a giusto titolo, all’interno della scena mondiale; sebbene “The Epic” contenesse brani di pregio quali “Change Of The Guard”, “The Next Step”, “Miss Understanding”, “Re Run”, “The Magnificent 7”, “Re Run Home”, un’elefantiasi strutturale e un marcato generale virtuosismo “raffreddavano” l’ascolto; ciò anche nei momenti (potenzialmente) più intensi (come “Isabelle”, la stessa “The Next Step”, “Askim”, l’omaggio a Claude Debussy con “Clair de Lune”), tirati (“Final Thought”) o eterei (“Seven Prayers”), lasciando un sapore coprente da eccelso esercizio stilistico. Non mancavano abboccamenti (di dubbio gusto) verso più “borghesi” soluzioni (“The Rhythm Changes”, “Henrietta Our Hero”, “Cherokee” di Ray Noble) o esasperazioni “tecniche” come in “Malcolm’s Theme” e “The Message”.
 
Con l’EP “Harmony of Difference” del 2017, Washington fa capire che, nelle proprie corde, ci siano anche sonorità più accomodanti, come si evince sin dall’apertura affidata a “Desire” o da “Knowledge” e “Integrity” (nei loro temi da esatti momenti “sentimentali” di una colonna sonora di fine anni settanta); “Truth”, malgrado i suoi 13:30, non è da meno nei richiami a “Desire”. Stridente è, poi, il contrasto tra i virtuosismi, gli assoli e il mood dei brani anche nella più riuscita “Humility” e nella televisiva “Perspective”.
 
La hybris di “The Epic” colpisce anche “Heaven and Earth” (diviso in  “Earth” e “Heaven”) come testimonia da subito la comunque ineccepibile e splendida “Fists of Fury” (da “Earth”) che rimarca la passione di Washington verso le ambientazioni cinematografiche degli anni settanta (nel caso di specie di James Wong, Joseph Koo e Ku Chia Hui). Malgrado le sfumature retrò e i consueti eccessi nei virtuosismi, “Earth” si distingue per le belle “Can You Hear Him” e “On Of One”, la percussiva “Hub-Tones” di Freddie Hubbard, mentre perplimono alcune aperture corali come in “Connections” che con “Tiffakonkae” e “The Invincible Youth” rimembrano animazioni da Lupin III (anche se siamo distanti dal maestro Yūji Ōno). Non manca il consueto e trascurabile “formato canzone” da crociera di “Testify”.

“Heaven” è, invece, caratterizzato dalle ottime “The Psalmnist” (di Ryan Porter), “Song For The Fallen”, “Show Us The Way”, ”Will You Sing” e dall’interessante “Street Fighter Mas”.

Se è, poi, impalpabile “The Space Travelers Lullaby”, non si comprende la necessità degli “esperimenti” vocali in “Vi Lua Vi Sol”, troppo dissimili dal restante tenore del brano; poco piace “Journey” che continua dimostrare un scarso feeling di Washington con il cantato femminile.

A “Heaven and Earth” viene immediatamente affiancato, tanto da diventarne parte integrante, “The Choice”, che continua a muoversi tra i solchi tracciati dal suo fratello maggiore e in cui spiccano l’ordinaria “My Family” (per un Washington che si ricorda di essere anche un puro jazzista)  e “Ooh Child” di Stan Vincent (in cui è operato un più esatto l’uso della voce); “The Secret Of Jinsinson” è nella norma, mentre troppo distaccata canta e suona “Will You Love Me Tomorrow” (di Gerald Goffin e Carole King).

Fearless Movement by Kamasi Washington

Del 2020 le “mediocri” musiche (basta fare rifermento anche solo alla versione riproposta di “The Rhythm Changes”) per il documentario “Becoming” (di cui si è già parlato su queste pagine alle quali si fa rimando).

Come singoli, da segnalare, del 2021, il più che riuscito “Sun Kissed Child (From “Liberated / Music For the Movement Vol. 3”), in cui tutto suona con gusto compreso il cantato, e una personale abrasiva e distorta “My Friend Of Misery” dei Metallica, oltre alla celebre e gradita “Cheryl” di Charlie Parker del 2023 per “A Small Light”.

Kamasi Washington dà, poi, vita con Robert Glasper, Terrace Martin e 9th Wonder al progetto Dinner Party (che non sarà oggetto della presente trattazione), gruppo che pubblicherà (con molteplici ospiti tra cui anche Herbie Hancock, Snoop Dogg …) nel 2020 un EP e un remix  “dessert”  del EP stesso (da annoverare comunque “Freeze Tag”,  “From My Heart And My Soul”, “Sleepless Nights”, “Love You Bad”) oltre, nel 2023, al singolo “Insane”.

E così, giunti nel 2024, è la volta di “Fearless Movement”.

La prima cosa che spicca è la durata del disco che, nonostante superi gli 86 minuti, è sensibilmente inferiore ai precedenti “The Epic” e “Heaven and Earth”, caratteristica questa che, terminato l’ascolto, è risultata vincente al pari di una compressione e limitazione parziale dei tecnicismi dei musicisti coinvolti, segnando così un altro punto a suo favore. Minori sono anche i richiami a una certa musica cinematografica degli anni settanta.

Splendida l’apertura affidata a “Lesanu”, in cui uno spoken fa da preludio a un riuscito e accattivante tema. Fino a ora Washington ha sempre centrato il segno con i brani introduttivi dei suoi dischi: “Changing Of The Guards” e “Fists of Fury”.

Parimenti riuscita è anche “Asha The First” nelle perfette parti corali, brano che però paga il vecchio dazio nei virtuosi e non necessari assoli (Thundercat docet), per poi sorprendere con gli interventi rap di Taj Austin e Ras Austin, per un brano che è sicuramente vincente.

In “Computer Love” si ripropone il peccato originale di un cantato femminile affidato (come anche nei lavori precedenti) alla brava Patrice Quinn (il brano originale comunque lo imponeva); il risultato finale è però ben più convincente del passato e l’atmosfera complessiva più calda e profonda per una bella rivisitazione del brano degli Zapp.

Di mera transizione ed a “effetto” è la breve “The Visionary” che conduce a “Get Lit”, brano che scomoda addirittura George Clinton oltre a D Smoke e che risulta funzionale anche perché impreziosito dal flauto di Rickey Washington, ma che avrebbe potuto sicuramente essere più marcante vista anche la presenza di Clinton.

Piace “Dream State” che, grazie anche ai flauti di André 3000, è evocativa e ancestrale; le ossessioni elettroniche nella prima parte ben si integrano nel mood.

“Together” (di Ryan Porter), con BJ the Chicago Kid alla voce, tradisce, come già spesso è accaduto, un approccio troppo “borghese”, vulnus che colpirà anche “Lines In The Sand”; per entrambe le parti strumentali tendono con supportare garbatamente l’orecchio per poi procedere verso direzioni altre.    

Ottima “The Garden Path” che riesce ad equilibrare con stile differenti matrici per uno dei momenti migliori  e più “spendibili” del disco in cui Washington condensa tutto il suo gusto nei misurati 6:40 minuti di durata (non a caso il brano fu già presentato come singolo nel 2022).

Coinvolgente è la notturna e urbana “Road to Self (KO)” che non fa patire i suoi 13:25 minuti e si fa apprezzare nelle distorsioni di Woody Aplanalp.

“Interstellar Peace (The Last Stance)”, a firma del solo Brandon Coleman, propone splenetici e misteriosi landscapes cinematografici.

Chiude “Fearless Movement” l’incalzante “Prologue” di Astor Piazzolla, bella cavalcata in cui riaffiorano atmosfere retrò da colonna sonora.

In conclusione, “Fearless Movement” appare più maturo e meno intriso di richiami terzi, assenza che se da un lato lo privano di caratterizzazioni come (per tutte) “Fists of Fury” dall’altro lo rendono più libero ed ecumenico.

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