Fino a qualche tempo fa in pochi avrebbero investito 5 lire sul cinema rumeno, e ancora meno sarebbero stati quelli pronti a scommettere sulla sua esistenza.
E invece il cinema rumeno esiste e come, riuscendo ad affermarsi con successo nella più grande piazza cinematografica del mondo: Cannes.
Appena dieci produzioni cinematografiche all’anno, poco più di dieci co-produzioni e un sistema di finanziamento allo stato embrionale che ciononostante, nel giro di 3 anni ha fatto guadagnare alla Romania ben tre premi che tradizioni cinematografiche ben più consolidate (e con maggiori risorse finanziarie) farebbero a capelli per conquistare: Un certain regard conquistato nel 2005 da Cristi Puiu con “The death of Mr Lazarescu, la Camera d’Or vinta da Corneliu Porumboiu con a “Est di Bucarest ” (distribuito anche in Italia) e quest’anno a sorpresa, il paese del conte più famoso del mondo addirittura raddoppia, portandosi via la Palma d’Oro assegnata a Cristian Mungiu e il premio della sezione Un certain regard consegnato a cristian Nemescu per il suo “California Dreamin”.
L’assegnazione della Palma al film di Mungiu ha stupito la stragrande maggioranza del pubblico del festival (pare che nessuno l’abbia visto, tranne la giuria, naturalmente), che nella pompa magna del grande circo cannense ha visto premiare un film assolutamente scarno, tecnicamente primordiale (c’è più tecnica registica in “La grande rapina al treno” di Edwin S. Porter), ma incredibilmente geniale.
4 mesi, 3 settimane, 2 giorni è un film fatto di assenze, di cose non dette, di cose nascoste e mai svelate.
È un film che duetta con lo spettatore, invitandolo a colmare i vuoti della rappresentazione filmica. Un racconto costruito su lunghi piano sequenza e su di un montaggio lineare, supportato da una fotografia scarna a la Fassbinder.
Quello di Mungiu è un film tecnicamente “sporco” eppure assolutamente perfetto: pulsante di vita e di paura tra le strade di una Bucarest infernale, assurdo nella veridicità del racconto e nella caratterizzazione dei personaggi.
Terrificante nell’attesa (dove lo spettatore soffre della libertà di aspettarsi di tutto) e degno della miglior commedia brillante americana nella scena in cui una delle due protagoniste (ma di fatto la protagonista), Otilia (interpretata da una straordinaria Anamaria Marina), raggiunge casa del ragazzo per presenziare alla solita cena con amici- colleghi dei genitori condita da discorsi borghesi e privi di sostanza.
E cosa dire di quando alla fine, il film finisce, brutalmente, come un aborto spontaneo?
Lasciando la platea interdetta, incapace di comprendere come abbia fatto a vincere Cannes e un attimo dopo, assolutamente contenti che l’abbia vinto: in caso contrario, avremmo perso un capolavoro.
Autore: Michela Aprea