Il nome che mi è venuto subito in mente ascoltando per la prima volta gli Adjágas è stato quello dei Sigur Rós, più che altro per la provenienza geografica (i Sigur Rós come noto sono islandesi, gli Adjágas provengono dal nord della Norvegia) e per il fatto che gli alfabeti lirici dei due gruppi – un misto di islandese e di lingua inventata per i Sigur Rós, l’idioma lappone modulato nel tradizionale stile canoro yoik per gli Adjágas – finiscono per apparire molto simili al mio orecchio poco esperto, dolci melodie che si trasformano in sibilo, in filastrocca, in nenia ancestrale, quasi altri strumenti tra gli strumenti.
Le similitudini per la verità si arrestano qua – e già mi rendo conto che accostare l’Islanda alla Lapponia e l’hopelanic di Jon Thor Birgisson allo yoik lappone è operazione piuttosto approssimativa – perché gli Adjágas non conoscono le dilatazioni cosmiche e le catarsi elettriche di “Agætis byrjun” e di “()” ma si concentrano piuttosto sulla classica forma della pop-song intessendola di elementi folk, siano essi rappresentati dal banjo birichino di “Lihkulas” e “Ozan”, dai lievi accordi di chitarra di “Guorus Fatnasat” o dalle note cristalline di pianoforte presenti in “Suvvi Ijat”.
Il fulcro vitale del progetto è rappresentato dalle voci – femminile e maschile – di Sara Mariella Gaup e di Lawra Somby, ora intrecciate nel mantra di “Mun Ja Mun”, ora perse nelle atmosfere oniriche di “Rievdadeampi” (in lingua lappone Adjágas indica proprio lo stato tra la veglia e il sonno).
Il merito maggiore degli Adjágas? Quello di “parlare” al cuore dell’ascoltatore attraverso un “linguaggio” assolutamente personale.
Autore: Guido Gambacorta