Nel cinema di Almodovar desta stupefazione un’audacia artistica irremovibile che non si intimidisce dinanzi a nessuna prova. Ogni film è un appuntamento per inscenare il proprio immaginario senza mezzi termini, mettendo in discussione ogni suggestione visiva a scapito della quiete interpretativa. “Volver”, ultimo lavoro del regista spagnolo, conferma l’afflato di autobiografismo che ha caratterizzato anche “La Mala educacion”, ma si veste della femminilità di un’ispirazione molto più vicina alla commedia che alle atmosfere drammatiche. Almodovar tratteggia una Spagna ventosa e fuori dal tempo in cui troneggia la fotografia vivida di colori fiammeggianti e una luce accecante. L’idea della morte funesta tutta la pellicola tornando e ritornando senza sosta sotto varie sembianze, esplicito e continuo rimando all’ossessione del cineasta. La Cruz ricorda la figura epica di una Loren e di una Magnani, aggiornata alle esigenze di una trama molto corposa ed ingombrante che insidia la leadership delle attrici protagoniste. Gli eventi non sono solo un pretesto per la trasposizione cinematografica in atto, ma hanno vita propria e sviluppano un corso drammatico ben preciso. Non a caso Almodovar ha dichiarato di aver scritto e riscritto la sceneggiatura senza tregua perchè la considera ( come dargli torto?) la base solida su cui costruire gli eventi di un film. E la fattura di “Volver” la si deve sondare proprio nella disposizione della storia dove sono ravvisabili fugaci incursioni nel thriller e pregnanti temi musicali: entrambi hanno una collocazione funzionale all’idea principale del film. In questo universo di autenticità matriarcale gli uomini sono insignificanti oppure occupano ruoli ripugnanti nella loro marginalità e per questo sono eliminati subito. Lo spazio viene concesso, anche se poco, ad un pedofilo che dovrebbe essere il padre di Paula ( la brava Yohana Cobo), ma che infine viene delegittimato fino al rango di patrigno. È fondamentale cogliere la strana veste psicanalitica del film che viene sfoggiata dall’autore, immettendo nella sua setta femminile un personaggio sessualmente neutro, la Morte. Essa viene sublimata in una favola che non fa mai i conti con l’era in cui presumibilmente si svolge perchè il paesaggio, al di là delle protagoniste, è una silente sinfonia cromatica. Quella di Almodovar è una telenovela rispolverata e destrutturata per il grande schermo con una lauta componente fantasmagorica. L’incipit è troppo mellifluo con tutto il rito di baci e bacini che si consuma tra le amiche, ma il ritmo sembra riscattarsi grazie al dispiegamento di una buona dose di suspense figurativa ben gestita. Il segnale che si manifesta allo spettatore è quello di una irrevocabile poeticità che purtroppo si converte facilmente in patetismo. Quando però la tragicità non è asservita agli eccessi attoriali, il messaggio ( divertito ) di morte, di cui l’autore auspica la ricezione, si rinsalda in un campo d’azione drammatica molto più ampio.
P.s.
Da notare gli straordinari titoli di coda che sfuggono all’omologazione, riprendendo tutto lo spirito del film grazie a colori imperlati e musica incandescente.
Autore: Roberto Urbani