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Intervista: Airportman

di Redazione
16 Dicembre 2013
in Interviste
Tempo di lettura: 6 minuti
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Vecchi nastri graffiati, fragili melodie ripiegate su se stesse, un sorriso fugace incorniciato da note di pianoforte e glockenspiel, accordi di chitarra che scivolano sui vetri opachi di una finestra sbattuta dal vento, paesaggi morriconiani attraversati con gli occhi lucidi e il cuore pulsante stretto in mano…: questo il mondo poetico dei piemontesi Airportman.
Abbiamo incontrato Giovanni Risso, membro fondatore del progetto insieme a Marco Lamberti, in un momento di pausa tra la promozione del sesto disco – il bellissimo “Rainy days” uscito quest’anno su Lizard – ed il missaggio di un settimo lavoro ormai in procinto di essere ultimato.

Ci volete illustrare il particolare legame che intercorre tra musica e parole nella vostra esperienza artistica? Siete autori di dischi interamente (o quasi interamente) strumentali ma ogni vostro brano è accompagnato da un testo poetico. La fonte d’ispirazione primigenia sono le liriche (poi musicate e lasciate solo su carta) o piuttosto l’atmosfera dei pezzi (poi foriera di immagini e appunti scritti)?
La soluzione musicale degli Airportman è giunta come esigenza. Prima degli Airportman suonavo, con una parte degli Airportman stessi, in un altro gruppo, i Rataré, con i quali abbiamo registrato sei dischi in autoproduzione, facevamo canzoni con una voce femminile. La soluzione per così dire classica della canzone “cantata” , ad un certo punto del nostro percorso, ha perso il significato che alla musica volevo dare. Poco alla volta ho capito che la parte più emozionale della nostra musica dava il meglio nelle parti strumentali. Ed è cosi che un’estate io e Tibu (Marco Lamberti) con il quale ho diviso tutto il nostro percorso fin dall’inizio, abbiamo iniziato a registrare alcune bozze strumentali, senza sapere di preciso dove ci avrebbero condotto. Non abbiamo voluto rinunciare però in nessun modo alla parte letteraria, continuando a scrivere i testi. Nella maggior parte dei pezzi è il testo ad alimentare l’ispirazione musicale, ma non è regola ferrea. E’ anche successo che una particolare atmosfera musicale abbia indotto a riflettere con la scrittura di un testo.
Per quanto mi riguarda ciò che risulta fondamentale è che nell’ascolto o nell’esecuzione del brano riesco a rivivere totalmente ciò che ho scritto, con le medesime sensazioni ed emozioni, come il tuffarsi in un salto temporale ed emozionale che mi catapulta direttamente all’esatto momento nel quale ho scritto il testo. Una sorta di memoria storica impressa ferocemente nella mente che riaffiora con tutta la sua intensità nel momento in cui risuono il pezzo.
Dal punto di vista narrativo mi sembra che il filo conduttore di “Rainy days” sia quello del trascorrere del tempo, un tempo assolutamente intimo, scandito da secondi e minuti che possono durare giorni o settimane, fatto di gesti quotidiani, di affetti irrisolti, di vividi ricordi… Che legame avete con la dimensione del passato e con quella del futuro? Quanto vi spaventa la morte?
Proseguo rispondendoti alla seconda domanda e ricollegandomi a quanto detto fino ad adesso. Emerge fondamentale l’elemento tempo. La nostra musica è per noi fotografia. Fotografia di istanti emozionali importanti. La grande forza della musica è quella di saper evocare momenti trascorsi forti. La nostra musica per noi è prima di tutto curativa per noi stessi. Non potrei farne a meno. Come non potrei fare a meno di bei dischi. Rifletto sovente sul potere della musica, sentendomi dire tante volte di essere troppo scollegato dalla realtà. Ma la musica, non solo la mia, ha per me il potere di rispondere a interrogativi, ha il potere di farmi sentire vivo. Riscoprire anche oggi a quarant’anni di riuscire a commuovermi per una canzone mi fa sentire bene.
I dischi degli Airportman sono per me tasselli di memoria incastonati nella mia anima. Riflessioni sul trascorrere del tempo, sulla immutabilità delle cose e sulla completa mutabilità delle persone, sull’amore per i figli e sulla paura per il loro domani. Insomma il nostro progetto nasce per raccontare di noi stessi.
La morte fa parte della vita e non incute paure. Le paure sono legate al vivere oggi. La paura di non avere tempo, di non riuscire ad apprezzare tutta la bellezza che ci circonda. La vita oggi è complessa e ci induce a perdere di vista le cose belle, le cose importanti, i sorrisi, la mia musica mi deve ricordare ogni giorno di ricercare la bellezza della vita.
Alcuni mi hanno detto che facciamo musica triste. Per quanto mi riguarda la nostra musica riesce a darmi solo benessere; anche quando mi rievoca eventi tristi e malinconici.
Il vostro precedente disco – “Off” – era stato composto in sole due notti: anche “Rainy days” è stato partorito così velocemente o ha avuto una gestazione più lunga?
Tutti i lavori degli Airportman sono scritti in tempi brevi. In particolare “Off” è stato scritto e registrato in due notti e questo fattore ha certamente condizionato il mood del disco. I brani di “Rainy days” sono frutto di sessioni in studio avvenute comunque in un lasso di tempo relativamente breve ma hanno subito più attenzione nella parte del missaggio. Per “Off” volevo che il disco trasmettesse la stessa atmosfera di quelle sere d’estate, e per questo abbiamo mixato senza intervenire con effetti od altro. I pezzi nascono sempre in fasi di tranquillità; nel momento nel quale esce un disco nuovo c’è già disponibile nuovo materiale sul quale lavorare.
Che ruolo riveste l’improvvisazione nel vostro processo creativo?
Direi che non c’è improvvisazione, piuttosto lasciamo che la parte di ognuno prenda una dimensione naturale. Gli elementi degli Airportman sono persone che si sono avvicinate al progetto in tempi diversi ma tutti, in modo differente, hanno creduto nel progetto portando contributi importanti e non forzati da uno solo. La cosa importante è che quando usciamo dalla saletta prove tutti vengano coinvolti in modo emotivo e che la musica restituisca ad ognuno di noi qualche emozione vera.
Non è importante condividere le stesse emozioni ma è importante sentire che la musica ci riscaldi.
I testi sono personali e in linea di massima non c’è condivisione sulla parte letteraria; del resto il testo, per avere la sua completa forza evocativa, non può essere spiegato. Nasce un senso di appartenenza alla parte letteraria che viene invasa anche da un senso di protezione. Non amiamo parlare del contenuto dei testi, forse troppo personali, ma spero che l’anima che mettiamo nel suonare possa coinvolgere altri.
Che tipo di formazione musicale avete alle spalle? I vostri pezzi lasciano trapelare studi o quanto meno ascolti di classica contemporanea…
In realtà siamo tutti autodidatti e suoniamo qualche strumento in modo abbastanza approssimativo.
Certamente c’è molta curiosità su tutto quello che è musica. Ascolto davvero di tutto e sono alla continua ricerca di nuovi mondi musicali. Vicino a tanto post-rock ma adoro le belle canzoni pop. Trovo affascinante la musica contemporanea di avanguardia, ma mi affeziono solo a quella che riesce a farmi piangere.
La forte componente cinematografica della vostra musica vi candida al ruolo di compositori per il grande schermo: con quali registi italiani o stranieri vi piacerebbe collaborare per la stesura di una colonna sonora?
Quello di una colonna sonora è certamente un sogno nel cassetto. Amo il cinema noir e se potessi scegliere vorrei scrivere la colonna sonora per un film del fratelli Cohen. Supportare quelle immagini in bianco e nero fatte di tanto silenzio e di introspezione sarebbe una sfida davvero fantastica.
Mi sbaglio o da parte vostra c’è una certa ritrosia ad apparire in foto, quasi la volontà di far parlare solo la musica lasciando del tutto in secondo piano l’immagine di chi quella musica la scrive e la suona?
Non penso sia importante far emergere le nostre fotografie, totalmente ininfluenti sul contenuto dei dischi. Mi piace pensare alla nostra musica come ad un entità che possa viaggiare nelle menti e nei cuori senza essere filtrata da nessun altro fattore che non la musica stessa o le parole dei testi.
Avete già una cospicua discografia alle spalle – 6 uscite in 6 anni – qual è il disco al quale siete maggiormente affezionati e perché? Avete già pronto del materiale per il 2008?
6 dischi in 6 anni, in effetti esce parecchio materiale. La scelta non è dettata da nessun fattore in particolare se non l’esigenza di ascoltare la nostra musica.
Come dicevo prima nel momento in cui esce un disco ci sono già brani nuovi sui quali lavorare. Scriviamo per raccontare di noi stessi ed è inevitabile avere materiale sul quale immergersi. Poi i brani nuovi hanno sempre un potere di innovazione, emozioni diverse e quindi maggior coinvolgimento.
Mi piace riscoprire i vecchi lavori in modo saltuario, il potere evocativo continua così ad essere forte. Ed è per questo che facciamo pochi concerti; succede di dover suonare in modo consecutivo per due o tre sere ma in questo modo non riesco ad ottenere sempre il giusto coinvolgimento. Quando suono mi piace immergermi completamente nel nostro mondo ma ci riesco solo se i concerti sono temporalmente distanti tra di loro.
Amo tutti i miei dischi, come per i figli, ognuno di loro ha qualcosa di irrinunciabile e soprattutto contiene un pezzo di anima. Se devo scegliere direi “2.45” ma solo perchè ha dato inizio a tutto quanto.
Per quanto riguarda il nuovo materiale, in effetti c’è già tutto; ci sono dieci brani registrati per i quali procederemo a breve per i mix, … e poi si vedrà. Stiamo lavorando in modo parallelo ad un disco di cover che stiamo ultimando, ci diverte e riascoltare le nostre rivisitazioni di Smog, Eels, Arab Strap, Elliot Smith ed altri è davvero bello.Autore: Guido Gambacorta
www.airportman.com

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