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Special: Ascanio Celestini – Parole Sante (Fandango)

di Redazione
16 Dicembre 2013
in Speciali
Tempo di lettura: 6 minuti
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“Parole Sante” è molto più che un disco, esattamente come Ascanio Celestini è molto più che un cantante. “Parole Sante” è un progetto ben preciso, che attraverso metafore orticanti e ritratti agrodolci, legge e racconta i giorno nostri con la sottile ironia tipica dell’artista romano.

Ascanio Celestini è un’erba cattiva che, già da qualche anno, infesta il mondo teatrale, lavorando in uno spazio che attraversa storie di gente comune, impegno sociale e convinzione politica.
Celestini è un esperto teatrante, perché i colpi li affonda senza nessun problema e, come i giullari medievali, colpisce i principi dei nostri tempi, utilizzando l’arma della comicità agrodolce. Lui cammina costantemente sul filo che separa la tragedia dal comico e il pianto dal il riso, e senza proporre eroi (l’eroe è sempre tragico), mette in mostra un’umanità sconfinata, coinvolgendo, gioco forza, anche lo spettatore. Ecco, perciò, che, assistendo ai suoi spettacoli, ci si sente il bambino grasso ed un po’ stupido, Pancotti Maurizio, ed il suo amico, Robertino Casoria. Ci si sente Nicola, il protagonista di “La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico”, e si sente tutta l’ingiustizia ed il nonsense della malattia mentale, e come il confine fra pazzia e normalità, che per sicurezza crediamo così fisso, è solo una questione di comodo, per decidere chi sta dentro e chi sta fuori. Ci si sente, poi, anche la Mosca vecchia di “Scemo di guerra”, quella che racconta della vittoria dei russi nella seconda guerra mondiale, con Roma piena di bandiere rosse, e ci si sente pure tutta quella banda di sciagurati che ne passano una più del diavolo, per dividersi un maiale, che, in quegli anni, era una specie di sogno proibito. Ciò che conta, però, è che questo sentire comune, da non confondersi con un buonismo qualunquista, non è un’immedesimarsi nelle storie di qualcun altro, bensì un comprendere che, dentro ognuno di noi, ci sono tutti questi personaggi.
“Noi siamo i froci, siamo gli ebrei, palestinesi dell’Intifada, siamo i barboni lungo la strada, siamo le zecche comuniste, noi siamo anarchici, noi siamo spastici, noi siamo quelli col cesso a parte, noi siamo brutti sporchi ma buoni…siamo l’elogio della pazzia, siamo un errore di ortografia, noi siamo i punti dopo le virgole…” *.
Ecco, è proprio questa la grandezza sovversiva del teatro di Ascanio Celestini, che, parlando a tutti e con il linguaggio di tutti, riesce a distruggere i muri delle differenze e ad abbattere le barricate dell’ordine costituito, sottolineando che, gira e rigira, siamo tutti nella stessa barca. Non racconta solo storie al limite e, anche quando lo fa, sembra di sentire un amico che ci porta tutto il suo soffrire quotidiano.
Al cinema, è più vicino a Otello Celletti (Alberto Sordi), protagonista, schiacciato dal potere, del film “Il Vigile” (1960) di Zampa, che non alle storie tragiche di Lars Von Trier, perché nel primo non c’è spettacolo, ma solo il dramma del vivere di ogni giorno.
In letteratura, è più simile ai personaggi senz’arte né parte di Niccolò Ammaniti, che non alle brillantate ed eteree sfighe dei protagonisti di Alessandro Baricco.
Ecco, tutto questo è Ascanio Celestini, e tutto questo è il suo primo (forse ultimo, ma il sottoscritto spera vivamente di no) disco “Parole Sante”: un’ora di storie (56 minti e 3 secondi) che, rifacendosi a stilemi musicali tipici del cantautorato italiano e non solo, e divindendosi fra brani cantati e brani recitati, ripropone tutta l’umanità umile, sfruttata e sfigata che è, da sempre, nelle sue corde. Una differenza, però stavolta c’è, ed è la speranza. Stavolta, infatti, sembra proprio che i ladri entreranno nella casa del ladro/padrone, che i precari alzeranno le barricate e che noi tutti, fra cinque minuti, inizieremo la rivoluzione, abbattendo quel potere che è così sicuro che il popolo non è nulla più che un bambino, al quale far fare quello che si vuole.
Proprio con “La rivoluzione” inizia “Parole Sante”, dove si auspica un’imminente ribaltamento della società, dove perfino il capo di tutti gli eserciti sente di essere, per la prima volta nella sua vita, al posto sbagliato nel momento sbagliato. Il tema, diciamo, sovversivo, ritorna, poi in altri brani, che rappresentano le punte alte del disco: “La casa del ladro”, “Parole sante” e “Noi siamo gli asini”. Nel primo, giocato sul fatto che, per dirla alla Orwell, alcuni ladri sono più ladri di altri, perciò non si chiamano furfanti, ma padroni, propone un incontro fra un ladro ed un padrone, dove, il secondo dice di essere un padrone e non un ladro, ma anche il primo si rivela un assassino e non un ladro: “e così sotto il cielo turchino c’è un padrone di meno”. In “Parole sante”, invece, la sovversione è affrontata in stretto legame con le vicende del collettivo di lavoratori precari “Precariatesia”, dall’incontro con i quali nacque anche il film che diede il titolo al disco, mentre in “Noi siamo gli asini”, è tutto un intero padiglione di manicomio a dichiarare di voler cagare sulle nostre ricchezze e sulle nostre abitudini. Questo brano, però, è legato ad un altro tema importante nella storia teatrale di Ascanio, ovvero quello del manicomio. Ecco perciò, che il pezzo successivo, vero e proprio momento da pelle d’oca intitolato “Fino a che sono stato chiamato” (presente in chiusura dello spettacolo “La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico”), è una testimonianza diretta di Alberto Paolini, rispetto alla propria esperienza in manicomio e, nello specifico, all’inflizione degli elettroshock.
Proprio da qui si può partire per parlare degli altri brani recitati, ovvero, quattro brevi passi dal titolo “Il popolo è un bambino”, dove Celestini, riassume ed esemplifica, con la solita caustica ironia, come il potere ci usi e ci tratti da marmocchi: la rivoluzione ce la fanno vedere in tv, così la consideriamo alla stregua dei culi delle veline; la differenza fra buoni e cattivi ce la mettono come indiscutibile, chiara come il gioco del calcio; le caramelle, invece che rubarcele dalle tasche, ce le fanno pagare il doppio, così il furto si chiama mercato. È con “Il popolo è un bambino_4”, però, che raggiunge l’apice della sua comicità orticante: in un dialogo fra Robertino Casoria ed il padre, quest’ultimo spiega al figlio che i terroristi esistono come Babbo Natale, quindi, esattamente come si crede a Babbo Natale perché si trovano i regali, così si crede all’esistenza dei terroristi perché ci sono le bombe, ma in entrambi i casi è solo una frottola inventata dai grandi per tenere buoni i bambini.
L’album prosegue, poi, con altre canzoni quali l’allegra, ma non stupida, “Il mondo dei bruchi”; “Poveri partigiani”, che si chiude con un ripetere ossessivo di “ricordate i morti, ma ricordateli vivi” e, “L’amore stupisce” e “La morte del disertore”, rispettivamente due brani dalle tematiche ancestrali, amore e morte, comunque affrontate con un punto di vista differente dal solito.
Ma è con i restanti “I me grepp” e “Cadaveri vivi”, che si toccano altre punte emotive. La prima (ghost track) è una canzone che, attraverso canto e recitazione, racconta la condizione dei minatori, mentre la seconda è una rassegna di tutte quelle minoranze da sempre bistrattate e rifiutate, ma che, in fin dei conti, sono lo strabismo di Venere della nostra società.
Un capitolo a parte, imprescindibile, è quello delle musiche, che, fatte da Boarini, Casadei, Celestini e D’agostino, non si limitano ad accompagnare i testi, come spesso accade nell’ambito del cantautorato, ma vanno a creare il significato assieme alle liriche. Ecco, perciò, che: le parole di “Poveri partigiani” acquisiscono maggiore profondità grazie alla musica cupa che le accompagna, “Cadaveri vivi” deve molta della propria forza al contrasto fra la strofa, con la chitarra in slide stile Ry Cooder, ed il ritornello, tutto con la chitarra in levare, mentre “L’amore stupisce” diventa una vera danza d’api tra un fiore e l’altro, per merito della melodia in pieno stile caposseliano.
Questo, con mille altre sfumature che il sottoscritto non è riuscito a dare, è un ritratto di “Parole sante”, ovvero un disco che è molto più di un disco. “Parole sante” è infatti l’ennesima dimostrazione che Celestini è uno che, o lo si ama, o lo si odia. Uno che, con la sua ironia orticante da cantastorie sovversivo, può creare tanti pruriti all’ordine costituito. Insomma, per dirla con parole sue, Celestini, una volta di più, dimostra di essere fastidioso per le regole, esattamente come “I punti dopo le virgole”.

* Da “Cadaveri vivi” in “Parole sante” di A. Celetini.

Autore: Alessandro Busi
www.ascaniocelestini.it

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