Ricordo perfettamente la sensazione che provai la prima volta che misi le mani su un disco dei Guide By Voices. Pensai di avere scoperto un giacimento segreto di pepite d’oro. Minuscole pietre preziose grezze che lasciavano di stucco per la loro lucentezza.
Erano gli anni d’oro dell’indie lo-fi (early ninties, of course) e non ci volle molto al maestro di scuola elementare Robert Pollard per affiancare il nome della sua creatura a quella dei più noti, anche se più giovani, Pavement e Sebadoh. La formula era semplice, canzoni power-pop accattivanti, a volte memorabili, che sembravano registrate con un walkman e che duravano lo spazio di una strofa e un ritornello. Uno spreco, pensarono in molti, ma ai nostri sembrava non importare e intanto la loro notorietà cominciò a crescere.
Arrivarono i tempi gloriosi di Bee Thousand e Alien Lanes, album infarciti di pezzi che parevano usciti dal “quaderno di brutta” di Pete Townshend e Alex Chilton. Pollard, affiancato dal suo compagno di lungo corso Tobin Sprout, pareva inarrestabile capace com’era di sfornare riff e melodie con la naturalezza con cui chiunque altro si gratta il naso.
Poi però qualcosa iniziò a cambiare, gli equilibri, calibrati ma fragili, iniziarono a incrinarsi. Le canzoni si allungarono e la produzione si affinò ma questo portò soltanto alla pubblicazione di lavori prolissi e incolore.
Cos’era successo dunque? Difficile a dirsi, dal momento che il songwriting del prolifico Pollard non virò mai di molto dalle traiettorie che gli erano, e gli sono tutt’ora, più congeniali. Col senno di poi, e dopo diversi album non certo entusiasmanti, viene da dire che la normalizzazione dei Guided By Voices ne mise semplicemente in risalto tutte le lacune.
Se invece volessimo essere un po’ più romantici (dopotutto glielo dobbiamo!) Potremmo dire che la peculiarità dei primi GBV doveva molto al connubio di spirito citazionista e purezza DIY; una volta che questa venne meno i GBV si trasformarono in un gruppo derivativo come tanti. Il Pollard hi-fi, insomma, rimaneva stonato come il Pollard lo-fi, ma con molto meno fascino.
Arriviamo dunque alla raccolta odierna, venduta anche come parte di un cofanetto celebrativo che fra brani live, inediti e alternative version dovrebbe contenere qualcosa come 139 canzoni. Human Amusement… com’era prevedibile non riesce nella titanica impresa di riassumere lo sconfinato repertorio della band di Dayton, tuttavia ne rappresenta un ottimo “bignami”. Vengono ripresi brani dai primi album pre-Matador fino a giungere a quelli dell’ultimo Erthquake Glue. Grazie ad un’ottima la scelta dei pezzi vengono ripescati gli episodi più riusciti degli ultimi lavori, sorvolando sui momenti meno convincenti. Certo, 32 brani stipati in quasi 80 minuti possono risultare indigesti a molti, ma nessuno vi obbliga a sorbirveli tutti d’un fiato!
Per tutti invece il consiglio di andarsi a recuperare i primi album ed ep (diciamo fino a Sunfish Holy Breakfast) di una band che costituisce ormai un pezzo di storia dell’indie rock americano.
Autore: Diego Ballani