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Special: Neapolis Festival 2005 – il report

di Redazione
16 Dicembre 2013
in Speciali
Tempo di lettura: 7 minuti
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Giovedì 7 luglio, ore 17.30: neapolis start.
L’ingesso non serve che a lasciarmi presagire la sensazione, riconoscibile fin dall’inizio, di attraversare la possibilità e osservarla mentre diventa certezza. Cosa aspettarsi da questa edizione 2005 del neapolis rock festival, dal cast eterogeneo e indie, rock nel senso più ampio e nobile de termine? Il verde che circonda la mostra d’oltremare fa da cornice perfetta, gli alberi attutiscono la calura, gente su gente affluisce, corpi, movimenti, odori, estate. Passeggio e fischietto tra me e me, cerco un programma, mi guardo intorno, sembra di essere in vacanza…
La musica, già, siamo qui per la musica, ma il tempo è ingannevole come l’ameno scenario di viali e coste verdeggianti, con i due palchi, vicini e ben delimitati: da un lato il “Metropolitan stage”, dall’altro l’arena flegrea, imponente e classica. All’ingresso, invece, ad accogliere gli spettatori, c’è il “Tuborg Stage“, dove nei due giorni di festival passano in rassegna le band emergenti di “Destinazione Neapolis” (Phidge, Visione Sinfonica, Foia, Camera 237), “Rockschool” (The Giggi Esplosione, Gentle Groove), e i gruppi indipendenti individuati dal M.E.I. (il meeting delle etichette indipendenti di Faenza).
Il diario d’ascolto comincia con l’introduzione più che degna degli …A Toys Orchestra, band campana che apre le danze del “Metropolitan stage” con una sorta di carillon a tinte scure, un abbraccio tra spettri distorti, feedback e voci effettate. Le melodie dirottano la musica su territori malinconici, mentre il cantato inglese, sovente a due voci, costruisce una resa indie all’insieme. Lo spettacolo si chiude sul richiamo di una sirena, sul cui dispiegarsi cresce, insistente, la ritmica.

A seguire tocca alle sperimentazioni dei Battles, che predispongono un campod’attacco sonoro dove in primis costruiscono frequenti e fitti dialoghi tra chitarre per poi imbastire la corsa al ritmo, sempre più ossessivo, con la batteria che s’indiavola sotto i colpi di bacchette, pugni e scansioni micidiali.
Effetti elettronici e rumoreggianti stridori di feedback completano il gusto, senza sconti all’etere, definitivamente collassato sotto i percorsi in crescendo. La danza sul palco accompagna le note, infervorando il pubblico: all’attivo, qualche mini e tante intenzioni, esperimenti doc col pubblico che assiste sbigottito e affascinato, perfettamente sintonizzato dal climax : li rivedremo, o quantomeno, avremo certo voglia di attraccare i sensi a questo riuscito vascello da guerra, sostenuto dal possente basso-metronomo a sostegno del suono. In successione, tocca ai NoMeansNo, tiratissimi e attempati vecchietti, per modo di dire, che scompigliano l’accolita dei fans, testimoni di un gradimento a 360 gradi perfettamente rispondente all’offerta del cast. Le stilettate compatte intessono il tiro lungo l’intera durata dell’esibizione, riuscita dimostrazione di anomala e non riscontrabile “senectute”, una vecchiaia apparente dei nostri smentita seccamente dai fatti. One, two, three, four, e lo scandire per antonomasia agita il palco, lungo l’intero arco dello show: rock’n’roll.
Toccherebbe agli Afterhours, ma problematiche extra sonore lasciano l’amaro in bocca a chi li aspetta con trepidazione: la resa live del nuovo disco va solo immaginata, e a sorprendere, in negativo, è la sconsolata constatazione dell’assenza, per malintesi, presunte pretese e chissà che alro. Non è affar nostro, visto che il palco passa ai Piano Magic, e la magia, effettivamente, ripaga delle aspettative nominali, intessendo lancinanti malinconie distorte sullo sfondo suggestivo de tramonto, con la voce indolente, triste del cantante che scivola, inabissandosi nei secondi piani, dietro le chitarre che immaginano sogni distorti e immersioni di spleen, mantenendo un equilibrato profilo pop che porta alla mende moti ondosi e tinte violacee..
Al cambio di palco, sul mainstage dell’Arena flegrea, i Resina, progetto elettronico in trio con la partecipazione dell’ex 99posse Marco Messina ad affiancare i Retina.it, che manipolano beat e sonorità elettroniche, moduli e sinapsi sintetizzate dal vivo che raccolgono l’attenzione e il notevole gradimento della platea.

Sembra che, prima di aprire il loro atteso concerto, qualcuno dei quattro men machine abbia espresso sentiti apprezzamenti per il laboratorio on stage creato dal progetto.
Poi tocca ai signori Kraftwerk, profeti e pionieri del digitale, artefici di certe sonorità che tanto suonano familiari ai frequentatori abitali della musica odierna: chiedere, tanto per dirne una, ai simpatici e improvvisamente sminuiti daft punk, annichiliti fino a scomparire da un confronto che definire ispiratore è un menzognero complimento.
I classici dello spettacolo sul palco, con i quattro uomini in ghingheri tanto stilosi quanto spersonalizzanti, sono celebri al punto da risultare familiari e impressi fin dalle prime battute: the Man-machine, Radioactivity, Robotrock, Autobahn, brani dall’ultimo lavoro dedicato al Tour de France, con ripetizioni, inni alienati all’ineluttabilità del progresso, alla ripetizione seriale, alle icone del novecento industriale fatto di pillole, auto e robot, con il consueto senso di straniamento che ricostruisce sensazioni da spettacolo riprodotto.
I quattro, alle prese con i potenti e moderni portatili-sintetizzatori, costruiscono un copione che risulta, alla fine, coinvolgente e insieme stranito, desolante e algido, anticipatore e tristemente profetico: simbolo esemplificatore della serata, lo sfavillio delle centinaia di luci fredde e colorate dei cellulari, rivolti alla canonica ripresa dell’ennesimo show, da programmare e immettere nel circuito mediale totalizzante. Che le macchine abbiano vinto? Nel dubbio, alzo gli occhi al cielo, contemplando il sipario stellato che chiude la notte..
Ai pensieri esistenziali sul cattivo progresso mi ribello dimenandomi e osservando compiaciuto il dance party del folle ensemble dfa: gli LCD Soundsystem sono una macchina che produce inviti ineludibili al movimento, battuta house, melodie perfette, urla da tipico punk act e battute precise e infuriate. Il responso del pubblico? Non c’è tempo per pensare, siamo in pista, a seguire i movimenti convulsi delle mani del singer invasato, del tutto concentrato nei vocalizzi spremuti o alle prese con la batteria da tempestare per dar man forte all’impatto del groove…yeah, yeah, yeah, yeah-yeah-yeah-yeah.
In chiusura, mentre il cibo culturale e non dei tanti stand che completano l’area Metropolitan viene preso d’assalto dal popolo festivaliero, è tempo dei Kasabian, che a dispetto dei detrattori eventuali propongono un rock’n roll sporco di elettronica e psichedelia, lezioni di stile e pezzi molto ben confezionati dai riff penetranti e tipicamente british: vero e proprio inno dello show, la celebre “Lost souls forever”. Tra un brano e l’altro, spreco di “thanks”, “grazie Napoli” e pensieri commossi allo strazio londinese rimbalzato in giornata in tutto il mondo.

Secondo giorno, 8 luglio, l’attacco dello show è simile: l’emozione palpita nell’aria, l’atmosfera, come annunciato dalle prime sensazioni, è proprio quella tipica dei festival, e il popolo napoletano sembra finalmente testimoniare la necessità di un certo tipo di proposte musicali e culturali: aprono la giornata i Songs For Ulan, tristezze svisate da un corpus strumentale che comprende le sonorità evocative e intense di contrabbasso elettrico e violoncello, artefici di una sonorità personale e con echi jazz.
Gli Hood disseminano il loro caratteristico sound elaborato, voce in secondo piano e effetti elettronici che frammentano le linee melodiche con beats e battute sparse all’interno dei brani, costruiti da un’anima sonora distesa su cui c’è un gustoso ed emozionante lavorio sintetico. Grande attesa per i Karate, col cantante Geoff Farina ormai di casa: molti ricordano un concerto napoletano ormai storico di qualche anno fa, con una platea delle grandi occasioni a testimoniare un’anomalia insolita e piacevolissima, inedita dalle nostre parti. Il solido impianto di questo gruppo dal nome marziale poggia sul blues e sul jazz, con la semplicità del suono che costituisce un seducente equilibrio per l’ascoltatore: sound asciutto, secco, improvvisazione nei limiti, songs riuscite, album di culto e voce ormai riconoscibilissima. Siamo dalle parti del tramonto, la luce cala, l’entusiasmo invece se ne guarda bene. Il pubblico accompagna con attenzione le varie esibizioni, pur concedendosi passeggiate e fori zona, tra chiacchiere e comportamenti tipici della cultura da festival, impiantata e destinata (gli auspici ci sono) a lunga vita anche qui al sud.
Ai Marlene Kuntz il compito di rimpiazzare la delusione per gli Afterhours saltati appena ieri, quali altri attesi alfieri dell’indie rock dei ’90: Cristiano Godano non ha perso un oncia del suo carisma, e il concerto di Marlene ripaga la folla in calca. Dai brani di “Catartica” all’ultimo “Bianco sporco”, c’è spazio per la poesia, le distorsioni, i cori, le nostalgie: “Nuotando nell’aria”, “Festa mesta”(!), “Canzone di ieri”, “1°2°3°” (!!), “Ineluttabile” (!!!)., “Agave”, “A fior di pelle”… Mentre il tramonto libera il nero notturno, non c’è tempo per pensare, di fronte al concerto di una band legata indissolubilmente ai fasti irripetibili del passato, ma, certamente, viva e ben più che vegeta, impreziosita dall’apporto di personaggi come Rob Ellis e il vecchio amico già impegnato nell’ultmo album di studio Gianni Maroccolo.

E l’Arena? Già , tocca a Tom McRae, intimista cantautore rockeggiante che trasuda sentori buckleyani e sensazioni folk. Prima che la rossa Tori Amos dia sfogo alle nervature uterine e sensuali nel corso di un esibizione dove eros e psiche scivolano via lungo le mani bianche attraverso i tasti percosso, sfiorati e animati. Tori, si divide tra organo e piano, in mezzo, dimenandosi e librando l’ugola lungo saliscendi di pathos, ammantati di fragilità e nevrosi, specchio sonoro di una personalità senza dubbio tormentata, fitta di anime erranti e storie da cantare. Spazio per la Principesca e rabbrividente “Purple rain”, con il rosso della chioma che stinge soffusa, perdendosi nei movimenti che assecondano la vocalità nuda e passionale della nostra. C’è lo stesso cielo di ieri, ma le sensazioni, volgendo lo sguardo in alto, sono più vive che mai.
Verso le 23,30 sale sul palco la vera attrazione della seconda serata del festival: Nick Cave. La sua esibizone, a posteriori, è valsa da sola il prezzo del biglietto. Accompagnato dall’immenso Warren Ellis al violino e da una sezione ritmica composta da Martin Casey al basso e Jim Sclavunos alla batteria, il cantautore australiano, seduto al pianoforte, ha inebriato i presenti, pescando a piene mani da un repertorio quanto mai vasto e di notevole livello. “The Ship Song”, una rallentata “The Mercy Seat”, “The Wepping Song” hanno reso omaggio al suo passato mentre “Get Ready For Love”, “God Is The House”, “Hiding All Away” sono state alcune delle gemme che ben hanno rappresentato il presente di “Re Inchiostro”. Un concerto denso di pathos ed energia, a testimonianza che per il quasi cinquantenne Nicholas Edward Cave il tempo sembra essersi fermato. Neanche il tempo di riprendersi dalle emozioni dello strepitoso live appena concluso, che il pubblico del festival si riversa nuovamente nell’area del Metropolitan Stage per godersi l’eclettico dj-set di Andi Toma (dei Mouse On Mars), in vena di sperimentazioni e di bizzarre contaminazioni sonore. Andi mixa con disinvoltura brani dal palpitante incedere dub con estratti di dischi dei Mouse On Mars, sovrappone il celeberrimo riff di “Smells like teen spirit” dei Nirvana con glitch e beat sintetici, alterna l’electro bizzarra di MU con classici new wave anni ’80. Un dj set molto divertente, accompagnato dalle originali e coinvolgenti proiezioni video realizzate dal vivo dal collettivo di vj-s bolognese “Polivisioni”, che interagiscono col dj afidandogli una micro telecamera con cui egli stesso realizza dei mini-loop video della sua performance.

Nel complesso: una due giorni memorabile, in cui si è vissuta per la prima volta a Napoli, finalmente, la sensazione di trovarsi in un grande festival. Che, c’è da scommeterci, già dalla prossima edizione non avrà niente da invidiare ad analoghi eventi a livello europeo.

Autore: Alfonso Tramontano Guerritore
www.neapolis.it

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