Se la pop music è definita tale per la sua capacità di filtrare e fluire attraverso una massa indistinta per l’immediatezza di un ritornello o per una simpatia d’immagine, con i G.N.S. quell’aggettivo si (ri)appropria anche di una valenza di classe, di appartenenza sociale, di un contesto insomma. Naturalmente proletario, ampiamente rappresentato nel cinema arrabbiato di Loach come nella lettura leggera di Hornby. Pub affollati e odore di birra, discorsi blandamente allusivi a certe scelte sociali e politiche dalla parte di chi
le subisce, non certo di chi le compie. Adesso è facile immaginare che se le foschie minimaliste che da un pò incombono sulle Highlands non lasciano intravedere che le pareti della propria stanza, tutto quel che si trova in questo disco può sembrare ridondante o anacronistico. Ma rifiutare a priori un ascolto a più livelli di lettura in questo caso implica anche rinnegare trent’anni di pop-rock britannico in un percorso che incontra la sottile malinconia di Elvis Costello e le ballads dei Coldplay calate nel 1971 dei T.Rex di Marc Bolan, i primi Radiohead senza ali ma tanta poesia e il David Bowie più deliziosamente borderline e ancora The Who e tutto quel tipico eclettismo anglosassone fatto di marcette, gioiose esplosioni vocali e ambiziosi arrangiamenti d’archi che una volta sedimentati si trasformano in piccoli intimi inni.
Autore: A.Giulio Magliulo