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Intervista: Architecture In Helsinki

di Redazione
16 Dicembre 2013
in Interviste
Tempo di lettura: 4 minuti
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Non sono particolarmente amanti dell’arte né nord-europei gli Architecture in Helsinki. Già dal nome, però, si evince la loro natura bizzarra, come dimostra il loro ultimo album “In Case We Die“. Il “corposo” (ben otto elementi) gruppo di Melbourne ama creare simpatici “divertissement”, il cui patchwork sonoro rasenta la schizofrenia. A volte si ha quasi l’impressione che siano troppe le idee messe in circolo. Non per forza un male si dirà, ma una maggiore “messa a punto” non sarebbe guastata… In ogni caso, non mancano gli spunti interessanti nel loro caso ed è proprio per questo che abbiamo approfondito con il bassista Sam Perry, la conoscenza di una band da seguire con attenzione:

Com’è andato l’impatto del vostri live con il pubblico italiano?
Non male direi, ci siamo divertiti (gli AIH sono stati di recente in tour in Italia, ndr.). Ieri ho potuto ammirare anche le bellezze di Roma…
Essendo voi amanti dell’architettura, ti avrà fatto piacere non poco…
Non c’è nessuno specifico rapporto tra noi e l’architettura, a parte il nome del gruppo…. Io, personalmente, mi interesso d’arte. Stamattina ho avuto la possibilità di girare un paio d’ore per la vostra capitale. E’ stato emozionante vedere tutti questi monumenti e palazzi antichi, ai quali ho scattato un sacco di foto.
Che tipo di architettura c’è, invece, in quel di Helsinki?
Davvero non lo so…nessuno di noi ci è mai stato.. il nome della band è nato per gioco…
La vostra formazione è abbastanza nutrita, vi si potrebbe definire quasi una piccola indie-orchestra. Che tipo di organizzazione vige al vostro interno, specie in termini di songwriting?
C’è voluto del tempo per raggiungere la nostra identità. Quando ci siamo formati, circa sei anni fa, non avevamo ancora le idee ben chiare sul sound che volevamo ottenere. La situazione si è fatta più nitida all’epoca del nostro primo album (“Finger Crossed”, ndr.), quando siamo definitivamente diventati otto elementi nel gruppo. Allora abbiamo capito meglio che strumentazione avremmo potuto usare. In generale, ci piace attingere dai più disparati tipi di musica e non fossilizzarci su di un preciso genere. Evolverci è una costante per noi anche se nulla di ciò che abbiamo fatto è stato granchè premeditato.
Quindi i tanti riferimenti musicali presenti nelle vostre canzoni sono dovuti più alla configurazione stessa degli AIH che non a precise scelte artistiche…
In parte è così. Per il nuovo disco siamo comunque partiti con l’intenzione di creare un suono che fosse il più possibile “orchestrale”. Aggiungici il fatto che ascoltiamo musica d’ogni tipo e siamo ben otto persone ad avere quest’attitudine ed avrai un quadro più chiaro della situazione…
Avete mai pensato che forse un’eccessiva varietà stilistica avrebbe potuto confondere i vostri ascoltatori?
Sicuramente chi ci ascolta per la prima volta può avere una simile sensazione….Dal nostro punto di vista, però, ciò che ci spinge ad essere dei musicisti è proprio la voglia di sperimentare continuamente nuove soluzioni musicali e non abbiamo nessuna intenzione di cambiare atteggiamento…
Il titolo dell’album, ” In Case We Die” sembra una sorta di prematuro “testamento”: non vi sentite troppo giovani per una siffatta eventualità?
Oddio, in verità, non ci siamo posti il problema…siamo tutti sopra i vent’anni e ci auguriamo di vivere ancora a lungo… In realtà non so cosa risponderti, forse avresti dovuto rivolgere questa domanda a Cameron (Bird, voce, chitarra e synt degli AIH, ndr.) che lo ha scelto…
Ok, meglio soprassedere…sino ad ora abbiamo affrontato maggiormente l’aspetto musicale del vostro gruppo. Ora gradirei conoscere qualcosa in più riguardo i testi dei vostri brani…
Solitamente partiamo proprio dalle melodie per lo sviluppo dei brani. Dopo cerchiamo di costruirvi sopra un adeguato impianto sonoro ed alla fine Cameron crea le liriche in base alle melodie. Cameron tende ad isolarsi molto quando deve scrivere i testi. Ritengo che questo lo porti a concentrarsi meglio e perciò i suoi versi riescono così bene a descrivere i sentimenti e le emozioni umane.
Quanto siete cambiati tra il primo ed il secondo album?
Come ti dicevo prima, col primo disco abbiamo cercato semplicemente di capire dove volevamo andare a parare musicalmente. Per noi quello è stato un momento molto delicato… Attualmente ognuno di noi si sente assai più sicuro come strumentista ed anche Cameron è stato capace di perfezionare il suo modo di cantare col tempo… Prima andavamo avanti per tentativi mentre ora siamo più sicuri del fatto nostro. Ciò si evince facilmente dal fatto che per registrare il primo album ci abbiamo impiegato due anni, al contrario dell’ultimo che è stato concepito in sei mesi…
In passato siete stati in tour con David Byrne, Polyphonic Spree e Belle & Sebastian. Ti va di raccontarci qualcosa a riguardo? Io, ad esempio, sarei curioso di sapere come vi siete sentiti nel confrontarvi con due band dalla line-up “estesa” come la vostra…
Purtroppo con i Polyphonic Spree ed i Belle & Sebastian abbiamo avuto pochi contatti… David Byrne, invece, è stato molto disponibile. Ci ha favorevolmente impressionato il fatto che ci abbia trattato non come dei pivelli ma come dei musicisti di tutto rispetto. Era addirittura eccitato dal fatto di poter suonare con noi. E’stato un vero shock dato che lui per noi è un vero mito!
C’è una grossa differenza tra il vostro sound in studio di registrazione e quello dal vivo?
Mah, non saprei…diciamo che nel corso del tempo abbiamo modificato il nostro assetto nei live, cercando di riproporre al meglio ciò che facciamo in studio. Dopo la pubblicazione di “In Case We Die”, nei nostri concerti abbiamo cominciato ad utilizzare dei laptop, dei midi-controllers, dei sintetizzatori, in modo da poter avere una più vasta gamma di suoni. Non credo che abbiamo ancora raggiunto la situazione ottimale e ci sono ancora cose da perfezionare. Ci piacerebbe molto poter usare dei veri organi o dei pianoforti ma sinora non c’è lo siamo potuti permettere…
Anche perché, vista la vostra ampia formazione, vi servirebbero dei palchi immensi…
Eh già…(scoppia a ridere, ndr.).
Per concludere: il disco che mette d’accordo tutto il gruppo?
“Feels” degli Animal CollectiveAutore: LucaMauro Assante
www.architectureinhelsinki.com

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