Vi dice niente questo nome? Eppure sono ben tre le risposte che si possono dare. ‘Hogwash’ era un brano del primo album dei motorpsycho, quel “Lobotomizer” che li ritraeva nel pieno di una giovanile irruenza metal. Guardando più al presente, e con l’obiettivo puntato direttamente sulla band in questione, Hogwash è uno dei 24 nomi “celebrati” qualche tempo fa da Wallace nel suo sestuplo “PO Box”, sorta di “best-of-the-demos” su cui scrive ha già speso un’ampia prolusione. Traguardo che assume particolare rilevanza nel caso di questo quartetto bergamasco – e siamo al terzo motivo per rispondere –, che brancolava da ormai 10 anni, tra un demo e l’altro (cominciavo a scrivere quando già circolavano), nella semi-oscurità di chi non ha ancora avuto l’onore di apporre la propria firma su quel sospirato pezzo di carta che – clausola più clausola meno – può identificarsi con un contratto discografico.
Parola magica? Sta di fatto che, dopo una decade, quando chissà quanto forte si sarà fatto lo sbatter d’ali dello sconforto, un’etichetta scopre di credere abbastanza in questi giovanotti per dare, a quelli che sarebbero stati ancora demo, i connotati di un disco come si conviene, così da trovarlo non più solo ai concerti, ma anche, con un occhio un po’ attento, anche sugli scaffali dei negozi.
Quanto potrà essere il bilancio vendite non ci è dato – né più di tanto ci interessa – sapere. A noi spetta giudicare (che brutta parola – ma ne avete voi un’altra, al momento, subito?!) se tale fiducia sia stata, artisticamente (=potenzialmente sul piano commerciale) ripagata.
Sotto questo punto di vista non si può negare a quelli di Urtovox una certa bontà nella scelta. Dismessa, certamente, ogni aspettativa per un “nuovo miracolo” italiano, va detto però come gli Hogwash abbiano imparato a rielaborare in maniera personale e ben dosata le influenze la cui assimilazione è resa inevitabile dal nostro (italiano) stato di “colonia musicale”. Influenze che, pur nella loro molteplicità, vengono fuse in una “lega” duttile. Questo perché gli Hogwash non si preoccupano minimamente di cercare a tutti i costi riferimenti antipodali (per poi ritrovarsi costretti ad improbabili “peripezie” creative), ma preferiscono appunto concentrarsi sul “rastrellamento” delle zone di confine tra generi effettivamente attigui dal punto di vista stilistico, e trovarvi delle valide soluzioni.
L’incipit ad esempio (‘Better So’) ci fa realizzare quanto i Pavement (che tornano più avanti nella scheggia lo-fi punk ‘To Become’ – e non c’è neanche bisogno di fare/avere la voce nasale…), negli episodi più “slacker”, non fossero poi così distanti da quella “calura” alt-country che, come dire, induce lentezza. E, negli episodi a seguire, quanto l’introspettività suggerita dal post-rock meno cinetiche abbia bisogno, in una certa misura, di un minimo di “slackness” per entrare in funzione. Non voglio battere troppo su questo tasto. Il concetto, senza “sneutralizzarsi” troppo, è che gli Hogwash prediligono le atmosfere rilassate, tranquille ma allo stesso tempo intense, e mandano la loro ispirazione ad attingere ovunque tali atmosfere riescano a manifestarsi. Sia, questo ovunque, anche un indie-pop acustico e radiofonico (‘Stock Phrase’, ‘Watershed’) o gli stessi Motorpsycho nel loro mood più romantico-espressionista (‘Grin’) o campestre (la conclusiva ‘A Murder’, con tanto di frinire di grilli in sottofondo). Sembra quasi tutto già sentito. Ma non ancora in questo modo.
Autore: Roberto Villani