Se i miei conti sono esatti, sarà la sesta volta che ho davanti a me quello che continuo a considerare forse il gruppo più incredibile che Napoli – e non solo – abbia prodotto da un bel po’ d’anni a questa parte. Più volte mi sono soffermato a riflettere sulla dimensione estetica di Francesco Prota e soci, assolutamente fuori dal contesto partenopeo e da convenzioni stilistiche di ordine temporale, geografico e anche, come dire, “disciplinare”. Sconfinando infatti in schemi teatrali di esibizione, la musica del “lupo mannaro” è figlia più o meno consapevole tanto della spinta evoluzionistica apportata dai Beatles alla musica popolare 40 anni fa quanto di un classicismo, probabile retaggio di studi di conservatorio, che conduce a una dimensione quasi a-storica del folk mitteleuropeo, sorta di Brecht o di klezmer est-europeo sottoposto a un trattamento di effervescente modernità. E poi quell’aria di chi sembra essere sempre stato altrove, lontano dalle quasi brutali immediatezza e concretezza della realtà quotidiana. Qualcosa che mi affascina, maledettamente, e che mi farà essere presente – se non in prima fila, almeno a portata d’occhio/orecchio – a una loro esibizione.
Quella di questa sera di fine inverno va ad inquadrarsi nell’ambito di “Giovani Suoni”, rassegna di band emergenti, a cadenza più o meno annuale, a partecipazione più o meno comunale. Una ulteriore dose di sovraesposizione che mi risparmio senza esitazione, facendomi vivo – giusto in tempo – per la gig in questione. Ed eccoli, non molto dissimili da come – circa due anni fa – li avevo lasciati: Francesco Prota (voce, basso, clarinetto, e da un po’ – l’avevo dimenticato – anche tastiere) con qualche capello in meno, Carin Jurdant (voce, qualche piccola percussione, l’inseparabile fisarmonica) ancora vincente contro il passare degli anni, “Tottolo” Stefanelli (chitarra, voce e legnetti in un brano a testa) e la sua fisionomia sempre più pantomimica. E un turnista. A differenza degli ampli (che gracchiano al minimo sussulto – e meno male che sul palco c’è un gruppo poco più che acustico…) i nostri sembrano in forma, anche se so benissimo che per godermeli dovrò cercare di dimenticare il più possibile ciò che so e soprattutto ciò che ho visto di loro.
E sì, voi tutti, i Le Loup Garou possono essere “assimilati” come qualcosa di spaventosamente spiazzante e travolgente la prima volta che li si vede, senza conoscerli. E’ successo a chi scrive quasi 7 anni fa. E tanto può colpire quella prima performance quanto possono lasciare relativamente insoddisfatti quelle che seguiranno. Non è solo questione di sound, ma anche di come si “teatralizza” una gig, mimando un accento – e quindi un passaporto – straniero o semplicemente curando il dettaglio di questa o quella movenza. E a meno che non c’è un vero e costante rinnovamento in questi elementi (la qual cosa si è verificata più o meno fino a “Wipiti”, ossia fino al “mio” terzo concerto), quello che era genio diventa, col passare del tempo, uno sbiadito “deja-vu”. Con effetti anche malinconici. Colpa di questi 4 anni senza dischi? Può darsi, ma scavando in rete si può scoprire che Prota non abbia iniziato il millennio standosene in panciolle, ma anzi abbia scritto musica per il teatro (con/per le amiche autrici Ludovica Rambelli e Giovanna Marmo, con la quale ultima nel 2002 ha fatto anche uscire un disco, a nome “Nani Nudi”, in allegato alla rivista Derive & Approdi), realizzato un insolito disco “da collezione” in solo vinile col musicita puteolano Lorenzo Scotto Di Luzio (proprio così: edizione limitatissima, 10 copertine da 10 copie cadauna in stile sanremo-anni 60 con questo “nasutissimo” Tenco meridionale, in vendita per telefono o nell’unica mostra effettuata, a Milano, a un prezzo… bè, sorvoliamo), costituito una sorta di manifesto-consorzio (con – tra gli altri – i citati soggetti) dal misterioso nome Neapolitan Surfers. E alle porte c’è finalmente un nuovo disco, “Capri Apocalypse” (di cui non si sa assolutamente nulla, neanche l’etichetta), da presentare proprio stasera in anteprima.
Eppure la sensazione prevalente stasera sul palco è la stanchezza. Non quella fisica, ovviamente, ma quella emotiva, una mancanza di entusiasmo che può anche avere le sue ragioni (postumi di debilitazione da inevitabili dissidi vissuti con industrali e burocrazia musicale, location forse poco gradita, pubblico in parte “inconsapevole” vista la free entry alla serata) ma che andrebbe professionalmente arginata, non con sorrisi finti ma con energia artistica, specie se – ed è questo il caso – i concerti non sono così frequenti ultimamente. Le gag da palco, come detto, non hanno beneficiato di aggiornamenti (salvo un grembiule rosso addosso a Tottolo nel brano “caliente” – come annunciato da Carin – in cui sale alla ribalta, e certi passi di danza burattinescamente minimali). E anche i nuovi brani sembrano indulgere troppo in mollezze para-gainsbourghiane al limite della parodia (passo indietro, perché l’ironia, e non la parodia, è stato il loro asso nella manica), a scapito delle felici intuizioni capaci di far coabitare un cantato in spagnolo e un sentire da vecchia Europa centrale.
Chiaro che i ricordi cominciano ad aleggiare malinconici nei vecchi brani – in versione necessariamente rimaneggiata dal punto di vista strumentale, ma spesso anche sminuita nell’interpretazione –, tanto quelli più propriamente individuabili come “classici” (‘Tashiro Mifune Scappa di Casa’, ‘Geronimo’, ‘Scienta Matka’) quanto quelli raramente o mai (a mia memoria) esibiti dal vivo (‘Fin de Siecle Magic Tour’, a mio parere il brano più rappresentativo del citato sentire, ‘Las Palabras de Mi Alma’ e ‘Je Connaissai Bix to Bix’). Altro? Una cover decisamente superflua di ‘Hit the Road, Jack’ di Ray Charles e un bis al quale, come si conviene, non si sono sottratti. Ma qualcosa in serbo, ancora da dire, ce la devono avere, maledizione…
Autore: Roberto Villani