Il 15 agosto ricorrono i 50 anni de “La Fiera della Musica delle Arti di Woodstock”.
Un festival, un evento, una storia nella storia riassumibile in una parola: (ultra)generazionale.
Celebrare il mezzo secolo di Woodstock con un memoriale “artistico – musicale”, è esercizio stilistico oggi (forse) inutile e pleonastico, stante l’ampia “letteratura”, cinematografia e il dovizioso documentarismo che hanno affollato e abusato le pagine informative dell’ultimo mezzo secolo.
L’anniversario de “An Aquarian Exposition: 3 Days of Peace & Music” può, invece, essere spunto utile per alcune riflessioni.
Leggendo, infatti, i “Commentari sulla Società dello Spettacolo” di Guy-Ernest Debord, mi sono imbattuto in un passaggio in cui il filosofo e sociologo, osservava: “Nel 1967 ho mostrato in un libro, La società dello spettacolo, ciò che spettacolo moderno era già essenzialmente: il regno autocratico dell’economia mercantile elevato a uno statuto di sovranità irresponsabile e l’insieme di nuove tecniche di gestione che accompagnano questo regno. Le rivolte del 1968, prolungatesi in vari Paesi nel corso degli anni, non hanno in nessun luogo abbattuto l’organizzazione esistente della società, lo spettacolo ha continuato a consolidarsi, cioè a estendersi alle estremità, da tutti i lati, e nello stesso tempo ad aumentare la sua densità al centro”.
Indubbiamente una simile osservazione si collocherebbe a latere delle critiche mosse da parte della “dottrina” al movimento ispirato dal pensiero de “L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse; ma non è questa la sede (né la mia intenzione) per discettare sul valore e sulla bontà del movimento studentesco degli anni sessanta.
Ciò che invece mi ha indotto in riflessione (confermando in parte un mio pregresso pensiero), è la possibilità di porre sulle assi delle ascisse e delle ordinate, per misurarne la correlazione e la dipendenza, la musica come arte, lo spettacolo, la commerciabilità della musica e un dato movimento sociale, per un’analisi che, partendo (appunto) da Woodstock, giunga sino ai giorni nostri.
È di palmare evidenza come il movimento studentesco del sessantotto abbia riverberato su scala mondiale un senso identitario e contro-culturale, diventando non solo un simbolo per la propria generazione ma, come sopra detto, assurgendo a fenomeno (ultra)generazionale, con effetti duraturi nel tempo e forme prossime al proselitismo.
A esso si è accompagnato, come naturale filiazione prima e come elemento generante poi, un’esigenza di concretizzazione espressiva artistica dell’ideologia dalla stessa propugnata.
La prima correlazione tra musica intesa come arte e movimento sociale è, quindi, fondata (ma probabilmente era anche la più ovvia e scontata).
È altrettanto evidente che Woodstock, non solo nella sua attuazione, ma anche nell’immaginario collettivo a venire, abbia assunto la funzione di “spettacolo”, una funzione accresciuta esponenzialmente con l’idealizzazione ideologica del movimento studentesco alla sua base; ciò malgrado non siano mancate critiche al Festival sotto ogni profilo (su tutte quelle di Eddie Kramer) riecheggiate da siti e giornali, nonché l’immediata eredità raccolta l’anno successivo dalla terza – non felice – edizione dell’Isola di Wight, che mise a nudo tutte le criticità di un’epoca probabilmente nata e già finita, immortalate dall’appello rotto di pianto della grande assente l’anno precedente a Woodstock, Joni Mitchell: “Credo che vi stiate comportando come turisti, dateci un po’ di rispetto”. Fortunatamente Miles Davis, Gary Bartz, Chick Corea, Keith Jarrett, Dave Holland, Jack DeJohnette e Airto Moreira restituiranno, con il loro “Call It Anything”, un ecumenico valore al tutto … ma questa è un’altra storia.
Se, infatti, gli anni cinquanta avevano consegnato alla gloria eroi santificati da teenager bruciati/te dal fuoco fatuo della ribellione adolescenziale medio borghese, il sessantotto fu matrice giovanile di ben altra idolatria.
Per fare un parallelismo (irriverente) Woodstock è stato ciò che il Cristo ha rappresentato per la religione cristiana: la concretizzazione terrena di una speranza salvifica, in cui la teologia si è fatta ideologia (d’altra parte il Festival si tenne a Bethel …).
Allo Spettacolo di Debord e del sistema si affianca, dunque, lo Spettacolo del contro-sistema che però ne assume, limitatamente al proprio spazio e “regno”, gli stessi connotati. E questa mutuata caratteristica è stata probabilmente la sua precipua forza.
Infatti, sebbene con valori qualitativi elevati e con radici salde in un pensiero (almeno nei propositi) “positivo”, il passaggio successivo e naturale che lo Spettacolo del sessantotto ha messo in moto fu la commercializzazione (seppur in antagonismo al mercato tradizionale) del prodotto musicale medesimo.
Testimonianza di ciò, è stato il successo, non solo in termini artistici, ma anche (e soprattutto) commerciali, che hanno riscosso gruppi e musicisti dell’epoca, misurabili tanto in “stadi” pieni quanto in uso e abuso di lusso, andando (molti) anche (così) in controtendenza con lo spirito di ribellione, ai limiti dello establishment, professato; e (da cattiva abitudine) come per le divinità divenute religione, senza sostanziali apostasie da parte dei fans, obnubilati dalla loro dogmatica fede cieca.
Il paradosso che il binomio Woodstock/sessantotto aveva così generato, con un ossimoro concettuale, fu quello di rendere “commerciale” l’alternativo e l’alternativo commerciabile economicamente e inquadrabile nell’industria discografica massificata.
Tale fenomeno, seppur con dimensioni diverse, si sarebbe replicato nel tempo, laddove arte/musica, movimento giovanile e, quindi, spettacolo stringevano il loro gentlemen’s agreement.
Basti pensare al Punk, alla Dark Wave, all’Hip Hop, al Grunge (non cito il Metal perché con le sue sfaccettature e il suo sé, rappresenta un universo parallelo) … tutti generi di genere sociale e giovanile, certamente molto più “deboli” del sessantotto, ma comunque capaci di comporre forme di pensiero attive.
Ma Debord prosegue nella sua analisi dello spettacolo aggiungendo: “Un potere assoluto sopprime tanto più radicalmente la storia quanto più sono imperiosi interessi od obblighi che ha per farlo … Lo spettacolare integrato l’ha fatto operando su scala mondiale. La sfera della storia era il memorabile, la totalità degli avvenimenti le cui conseguenze si sarebbero manifestate a lungo. Inseparabilmente, la conoscenza avrebbe dovuto durare, e aiutare a comprendere almeno in parte ciò che sarebbe successo di nuovo: “un’acquisizione per sempre”, dice Tucidite. In tal modo la storia era la misura di un’autentica novità; e chi vende la novità ha tutto l’interesse a far sparire il modo di misurarla. Quando l’importante si fa riconoscere socialmente come ciò che è istantaneo e lo sarà ancora nell’istante successivo, altro e identico, e che sarà sempre sostituito da un’altra importanza istantanea, possiamo anche dire che il metodo usato garantisce una sorta di eternità di questa non-importanza, che parla così forte … La prima intenzione del dominio spettacolare era far sparire la conoscenza storica … con la distruzione della storia l’avvenimento contemporaneo stesso si allontana immediatamente in una distanza favolosa, tra le sue narrazioni non verificabili, le sue statistiche incontrollabili, le sue spiegazioni inverosimili e i suoi ragionamenti indifendibili”.
Pensiero, questo, non lontano dalla modernità liquida dei giorni nostri teorizzata da Zygmunt Bauman che, se posta in parallelo allo sviluppo tecnologico e mediatico, traccia una precisa direttrice verso quella forma d’impoverimento relazionale che da avvenimento collettivo ha relegato a un individualismo da lari e penati di laptop domestica (sul punto è curioso, pertinente e “stimolante” l’analisi sulla pornografia audiovisiva contemporanea contenuta nel volume “Il porno espanso: dal cinema ai nuovi media”).
E difatti, in un progressivo dissolvimento del pensiero (condiviso), della coscienza storica e dell’aggregazione collettiva, il novembre del 1989, con la caduta del muro di Berlino, mentre da una parte ha sdoganato definitivamente il passaggio dall’imperialismo all’impero della globalizzazione, dall’altra ha sancito la fine e la sconfitta delle ideologie su scala mondiale.
Per Jacques Monet se è il caso che genera l’inizio, è la necessità che codifica l’evoluzione … e non a caso l’ultimo movimento socio-musicale di rilievo generazionale di controtendenza (il Grunge) è nato proprio prima della caduta del muro, ciò mentre l’Hip-Hop, con un decennio di ritardo, iniziava la sua Spettacolarizzazione; casualità questa?
Sicuramente la necessità di protesta, di credere in un’ideologia era ancora forte e involontariamente produttrice di musica alternativa (nuovamente) da spettacolarizzare e da commercializzare, sino a quando l’anedonia del pensiero post perestrojka ha dato vita a una generazione “rassegnata”.
Conseguenza di ciò, collocazione di uno dei più prolifici e completi, per sintesi di bellezza e contenuto, decenni musicali (1990/2000) nell’underground, lontano da qualsiasi forma di Spettacolarizzazione e di commerciabilità.
Nel 1991, mentre i Nirvana pubblicavano Nevermind per la Geffen Records, con lo sguardo volto verso MTV, i coevi Slint davano alle stampe Spiderland per la Touch and Go Records … nel silenzio delle masse, con lo sguardo volto verso il loro scioglimento, orfani di una Woodstock e di un sessantotto (e di loro omologhi) che li rendesse generazionali nel loro Spettacolo mediatico.
A conferma di quanto sopra espresso, trascorso il su citato decennio, il 1999, in occasione della Conferenza Ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio tenutasi a Seattle, produceva un rigurgito di pura e sincera contestazione in spirito sessantottino che si accendeva sulla denuncia “anti-globalizzazione”, accompagnata dagli scritti di Naomi Klein e di Toni Negri (“No Logo” e “Impero” sono stati punti fermi per i giovani no-global del 2000).
Accadeva, però, che il sistema, imparata la lezione, non solo ne impediva un’efficace Spettacolarizzazione, ma ne dissipava la portata artistica diluendola e frammentandola in singoli eventi. Nessuna catalizzazione, nessun collante, nessuna nuova Woodstock da celebrare.
Al contempo (ma tengo a precisare che questa è una mia congettura), il sistema politico ed economico iniziava a gettare le basi per l’autoproduzione di nuovi fenomeni collettivi musicali indotti, invertendo di fatto il collegamento tra movimento socio culturale/produzione artistica/spettacolo. Era dunque la Spettacolarizzazione legata alla commercializzazione del prodotto musicale che indirizzava il contenuto (apparentemente) di controtendenza. L’evidenza è nel fenomeno Trap che sta oggi investendo e influenzando gran parte degli adolescenti.
Se, in definitiva, si può, quindi, affermare che Woodstock, forte del movimento giovanile alle sue spalle, sia stato a suo modo un fenomeno commerciale e commerciabile nel suo divenire Spettacolo e quindi mercificazione, mistificazione e sofisticazione (tanto da scomodare recentemente, in un’Italia gerontocratica, anche una Rita Pavone conduttrice), con la caduta delle ideologie è venuta meno anche la Spettacolarizzazione alle stesse legate, rendendo così vedove le ultime due generazioni della capacità di pensiero collettivo e di “sincere” forme d’arte (musicale) da essere derivate, che sebbene prodotte, siano state capaci di imporsi all’attenzione dei media su vasta scala … ma tutto ciò resta solo sterile commento.
di Marco Sica