Dopo averci deliziati con numerosi brani del loro nuovo lavoro durante le più che convincenti esibizioni estive in Italia, finalmente la band islandese più amata pubblica l’attesissimo “Takk”.
Diciamolo subito senza mezzi termini: questo è un disco di rara bellezza. Il passaggio ad una major non ha di certo influito sulla qualità della musica del quartetto islandese. Ci sono sicuramente dei cambiamenti se si considera che in queste canzoni (e sottolineo canzoni, perché per la musica contenuta negli album precedenti difficilmente si poteva usare questo termine) c’è più spazio alla melodia e a chitarre dal sapore “rock”, e in genere a sonorità più gioiose (lo si capisce anche dalla copertina, dominata da colori più estivi come il marrone e il giallo), ma ciò non intacca minimamente la sempre eccelsa qualità delle composizioni.
Dopo due minuti di introduzione si parte alla grande con “Glòsòli” (brano che ha aperto l’esibizione romana del gruppo islandese e loro nuovo singolo), probabilmente il pezzo più “duro” mai stato composto dai Sigur Ros, che parte in modo lento e ipnotico, con la voce in falsetto di Jonsi Birgisson e il basso di Gorge che troneggiano, per poi sfociare in un vortice sonoro che rimanda ai Mogwai. Non è solo la musica a risultare suggestiva ma anche il testo, (in islandese come quasi tutto il resto di “Takk”) che narra di un bambino che una mattina si alza e si accorge che qualcuno ha rubato il sole e così si lancia alla sua ricerca, alla fine trovandolo.
Quale musica, se non quella dei Sigur Ros, può illustrare degnamente una fiaba del genere?
Subito dopo viene “Hoppìpolla” (che riguarda l’importanza del “momento”, come quando si odora qualcosa che ci fa arrivare una sensazione per la prima volta) con il suo incedere che sa quasi di pop orchestrale, grazie alle sapienti mani delle Amina, quartetto d’archi tutto al femminile che fa da spalla ai Sigur Ros in studio e sul palco. Con la quinta traccia, “Sé Lest”, si torna in territori già felicemente sperimentati in “Agaetis Byrjun”, mentre “Saeglòpur” rapisce con il suo alternarsi di struggenti note di piano e chitarre fragorose. Questa è sicuramente una grossa novità per i Sigur Ros: non eravamo abituati ad ascoltare chitarre così distorte nella loro musica. Ad ogni modo questo nuovo elemento si amalgama alla perfezione con le sonorità care alla band islandese.
Piano e chitarre sono il tratto distintivo anche della successiva “Mìlanò” (scritta proprio nel capoluogo lombardo al termine di un concerto al Teatro Ciak di cui la band conserva ricordi non propriamente felici) che ammalia l’ascoltatore per oltre dieci minuti. Segue “Gong” caratterizzata da una batteria in primissimo piano e dai suggestivi vocalizzi del cantante Birgisson. Toni più dimessi contraddistinguono “Andvari” che ci culla con i suoi sognanti archi. “Svo Hljòtt” è un sussurro impercettibile che piano piano si trasforma in una cavalcata elettrica degna dei migliori “My Bloody Valentine”. A chiudere le danze ci pensa “Heysàtan” che a dispetto del titolo non è un inno satanista bensì una struggente ballata per voce, piano elettrico e accenni di fiati.
I Sigur Ros dicono “grazie” (takk in islandese) ma forse siamo noi a doverli ringraziare per l’ennesimo capolavoro.
I Sigur Ros in Italia:
24 Novembre, Firenze
25 Novembre, Torino
Autore: Michele Lo Presti
www.sigur-ros.co.uk