Marginale, eppure centrale. Questo è Mike Fellows in relazione al poliedrico mondo dell’indie-rock. Detta così sa un po’ di vago, ok, e ci prenderemo la briga, necessaria, di restringere l’inquadratura del nostro obiettivo, perennemente puntato sulle vicende stilistiche di tal mondo. Resta il fatto che nel campo c’è sempre lui, Mike, mina vagante ma a stento visibile nelle sue fattezze, da anni a stretto contatto con le più svariate realtà musicali, impegnato vuoi come componente (Rites of Spring, Silver Jews), vuoi come session man (Royal Trux, Palace, Smog), vuoi come collaboratore. E più di recente anche da solista, pur se nascosto dal moniker Miighty Flashlight (avete letto bene, due “i” in “mighty”).
Adesso la dimensione solista sembra diventata una faccenda stabile, e finalmente completa dei dati anagrafici effettivi. Emerge in “Limited Story Guestline” una personalità musicale piena, consapevole, matura, al punto che, per uno strano gioco percettivo, non si capisce come abbia fatto a rimanere compressa per così tanto tempo all’interno di una band, di un ambito collettivo.
La materia plasmata, nella fattispecie, è il cosiddetto alt-country, creatura stilistica sospesa tra passato e futuro che, a rischio di profanare il vecchio cuore bianco dell’America, trae linfa operativa dalle dinamiche moderne e “giovani” dell’indie rock per tracciare i sentieri di una musica tradizionale nuova. Molto spesso la faccenda si risolve in fumose chiacchiere derivative che di nuovo hanno solamente il pubblico a cui cercano di strappare consensi. Non è questo il caso.
A dispetto della sua natura schiva, Fellows ci appare, già dalla copertina (ma guardatela!), come un vecchio corsaro in giro per mari che conosce fin troppo bene. Voce e suoni si accoppiano a perfezione in un abbraccio ironico e flemmatico, dove alle “cartoline sonore” che facilmente ci si potrebbe ritrovare a spennellare si sostituiscono affreschi strettamente personali, in cui la fonte musaicale d’ispirazione è un mezzo per far uscire le proprie emozioni e non un obiettivo.
Ed è difficile parlare di highlights nel momento in cui – e siamo più o meno al 14mo ascolto – ci si rende conto che questi 9 brani, anche a prescindere dalla mezz’ora e poco più cui assommano, creano un continuum organico ma mai monotono, in cui le emozioni fluiscono in maniera ondulatoria ma coerente, senza sbalzi eccessivi né salti concettuali (come d’altra parte ci aspetteremmo di provare alla vista di una distesa uniforme, un campo, un lembo di deserto, da un qualche solitario avamposto di umana presenza). Prendete ‘AM’, breve interludio strumentale che sembra una lucertola al sole che limita al massimo i suoi movimenti per preservarsi dalla disidratazione, o le incursioni di laptop-voce del deserto in ‘Sunshores’, o lo stesso incipit, ‘Way I Love’, probabile vetrina sul modus operandi/vivendi di Mike. E posso intraprendere anche il 15mo play, ma un episodio mal riuscito, così come un capolavoro definitivo, continuerò a non trovarlo…
Autore: Bob Villani