Non è che al primo colpo questa compilation mi abbia fatto impazzire, ma non so, forse sono io che ultimamente sbaglio l’approccio critico, avvicinandomi con orecchie fameliche ai dischi appena usciti e nutrendo aspettative sempre molto alte quando in gioco c’è un nome caldo (perché i Rapture sono un nome caldo, vero?), salvo poi dover abbassare un po’ le pretese, procedere con i se e con i ma, accontentarmi di ascolti fugaci e passare oltre, o piuttosto concedermi più tempo e giudicare il tutto con maggior distacco. Prima di scrivere questo pezzo mi sono quindi preso qualche altro giorno, qualche altro passaggio nello stereo di questa mix-compilation curata dai Rapture, e sono però tornato più o meno allo stesso punto in cui ero arrivato spinto dalle prime impressioni a caldo, ovvero che questa raccolta, anche senza parlare di aspettative deluse, merita una sufficienza piena ma non molto di più. La scaletta, figlia per intero o quasi dell’anima dance dei Rapture, si muove con disinvoltura tra disco-music d’annata, Detroit techno ed electro-soul, trovando i suoi momenti migliori proprio in apertura, con l’hip-hop di Ghostface Killah ad aprire il varco per il passaggio di Junkyard Band, The Bar Keys, Vaughan Mason & Crew, Northend e Don Armando’s Second Avenue Rumba Band. Ma – ecco il fatidico “ma” – tutta l’ampia parte centrale, diciamo da “Disco circus” di Martin Circus a “Why not?!” degli Alter Ego attraverso Arcade Lover, Armand Van Helden e Syclops, regala ben pochi sussulti e risulta fin troppo omogenea, sfumando così in un semplice, seppur gradevole, accompagnamento da sottofondo. E’ l’extended remix di “Get get down” di Paul Johnson a risvegliare l’attenzione sul finale e a far schizzare nuovamente in alto il volume, giusto in tempo per non perdere la funkiness di una valida “Going back to my roots” firmata Richie Havens.
Autore: Guido Gambacorta