I punk del deserto avevano tutti la stessa meta, diretti verso una vecchia casa dalle mura scolorite, col pavimento cigolante e i cardini arrugginiti. Poco fuori città, dove la polvere nasconde tutto fino a notte. Col buio finalmente l’aria avrebbe iniziato a respirare, e l’attesa avrebbe avuto senso. Tutto quel pellegrinare di stranieri sembrava una vecchia sceneggiatura. Ognuno di quei figuri aveva con se grosse custodie appaiate a della facce mai viste. Da quelle parti gli sconosciuti arrivavano raramente, solo per delle singolari commissioni. Quella sera invece erano in tanti, abbigliati come comparse di un teatro western, e lasciavano la loro scia di domande. Tra i bar dismessi e le donne in vendita avevano fatto il loro percorso, segnato sulle orme di un vecchio nastro consumato. Qualcuno lo aveva srotolato lungo l’asfalto irregolare, come un reperto piovuto da qualche lontana epoca di corde. I segnali incisi erano come vaghi richiami, lasciati da un fantasma dall’aria familiare.
Il vento scivolava leggero tra le mura. Quando tutti furono giunti, si formò un cerchio, in nome di uno spirito di passaggio. Le singole facce composero un quadro. Erano loschi figuri di una lontana frontiera americana, dimenticata, dove al posto dell’oro c’erano luci fosforescenti, tavoli da gioco, alcolici e gambe strette tra improbabili giarrettiere colorate.
Le odi all’assenza, al vizio e alla dannazione scoprivano i veli del blues. La benedizione di Johnny Cash si affacciava complice tra le righe. La festa iniziò allestendo il funerale.
“Gli spiriti non temono le sbarre”. Le storie prendevano forma seguendo le movenze di un pupazzo danzante, sorretto dai colpi secchi sulle pelli.
Il giro del vento rumoreggiava tra gli accordi dei fuorilegge. Nick Cave, Mark Lanegan, Debbie Harry, Barry Adamson, Cypress Grove, Kid Congo Powers, Isobel Campbell, Mick Harvey, Lydia Lunch, Raveonettes, sfilarono in ordine sparso tra le visioni a metà. C’ era la chitarra rimasta sul nastro, per anni, in attesa.
Era di Jeffrey Lee Pierce. Sulle sue tracce, per onore e memoria al fuoco d’amore. Questo è quello che resta di un animale voodoo, anima dei Gun Club, svanito tra fiamme fatue e maledizioni.
“Ramblin’mind”. Le lancette girano a vuoto, perdono il tempo apposta. Scivola un goccio, un altro e ancora. Si brinda in delirio. “Lucky Jim”. Il coro finale è un inno. “Walkin down the street”. La banda smobilita solo quando il sole è alto e la città è un deserto. I cavalli appaiono dal nulla. Si alza un sipario di polvere. Niente sceriffi in questa periferia. “Non siamo Malfattori. Siamo Cavalieri”. We are only riders è il nome di questo sentito omaggio all’ultimo, maledetto cowboy.
Autore: Alfonso Tramontano Guerritore