Cosa facevate nel 1982? Avete capito bene, era l’anno in cui Paolo Rossi trascinava l’Italia della pedata a un inatteso titolo mondiale. Elementari? Asilo? Prime poppate? O ancora fuori dal turnover di vite umane su questo pianeta, probabilmente. E invece i T.A.C. sfornavano già il loro primo, omonimo album. Quando le “tomografie assiali computerizzate” non erano ancora entrate nel dizionario di tutte le aziende (anzi, unità) sanitarie locali.
Su tale falsariga sarebbero trascorsi gli anni 80 e 90, con album dai titoli quanto mai suggestivi (“Hypnotischer Eden”, “A Circle of Limbs”, se siete esterofoni – altrimenti potete attingere da “Pioggia su Carne di Cavallo” e “Apotropaismo”) pubblicati su realtà discografiche strettamente circoscritte alla nicchia dark-electro-industrial. Poi un vuoto produttivo quinquennale a cavallo dei due millenni, e la ripresa, prolifica, nel 2002, che coincide con l’approdo alla barese SmallVoices. “Splintered” è il terzo episodio da allora.
Il tempo passa, i tempi cambiano. Il riassunto delle puntate precedenti dovreste conoscerlo: l’industrial nasce come manifestazione sonora dei residui di fabbrica; si “istituzionalizza” col ricorso alla strumentazione rock; muta stilisticamente pelle (pur restando fedele all’approccio avanguardistico) attraverso la digitalizzazione, e in taluni casi della tribalizzazione, degli incubi nel frattempo materializzati. Ma è anche questione di “stili”: sono le frange più radicate in un’iconografia oniricamente oscura – sorta di classicismo dark – a seguire questo percorso evolutivo.
E tale può dirsi il percorso del terzetto sardo (non l’avevo ancora detto?). “Splintered” presenta un gruppo che non può fare a meno dell’elettronica per fare un salto col passato. Se le suggestioni gravitano sempre intorno alle sconosciute profondità dell’essere, l’impianto sonoro poggia su solide fondamenta dub – ove non trip-hop – che mettono Simon Balestrazzi e soci nelle condizioni di creare algide “processioni sonore” sospese tra sciamanismo ancestrale e nebbiosa futuribilità, laddove la vena “classicistica” è affidata, oltre che alla sfocata ugola di Monica Serra, al sinuoso tessuto di archi (viola e cello) dei guest musicians presenti. Forse si può rimproverare ai T.A.C. di aver avvolto l’album in troppo cellophane (leggi: sa di “confezionato”), ma dopo 20 e più anni nell’underground è forse anche lecito ricercare in studio esiti più levigati che in passato.
Autore: Roberto Villani