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Special: Il mio nome è Sziget – Sziget Festival report, Budapest – Ungheria, 10/17 agosto

di Redazione
16 Dicembre 2013
in Speciali
Tempo di lettura: 7 minuti
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Avvicinarsi verso una delle fontanelle dal guizzo sottile per bagnare a volo lo spazzolino fa in modo che un brivido, eh sì, corra. “Solo per un sorso, please” azzarda l’italiano in dormiveglia. “Sto aspettando da venti minuti, lo siento”, risponde una damigella evidentemente spagnola. Mai possibile che dopo file metropolitane e attese buro-psicotiche in città, anche sull’isoletta in mezzo al Danubio, cuscino su cui si poggia il festival multimusicale dal gusto lungo, bisogna attendere un sacco di tempo per pomiciare con l’acqua? L’acqua, quelli più sorridenti agli sballi legali, la conoscono appena un po’ la mattina, alle 13:00 Pm, quando un ipotetico gallo-woofer canta strofe ragga dolce o si confonde con strilli di istruttrici d’aerobica (“mueve la cintura, asì”), svegliando quasi tutti gli accampati della zona blu (sud ovest). Tutti tranne, c’è da giurarlo sulla bibbia, un tipo forse croato coi dread nodosi e gli occhiali da sole con una sola lente, rimasto steso in stato di morte apparente su uno stuoino celestino per 4 giorni consecutivi 4. Con la sveglia, le tende – finalmente – la finiscono di respirare la puzza dei saccopelisti – mediamente – fradici della notte prima.
Lo Sziget tredicesima edizione parte con la giornata “zero”, senza concerti grossi, inedita per il raduno magiaro. Prendete posto, è questa la ratio; mettetevi comodi che per “capire” la giostra Sziget occorre un attimo di rodaggio. Gli italiani (come i tedeschi) giunti col pacchetto tuttocompreso in pulmann da Bari, Bologna e Napoli li hanno piazzati in una specie di riserva: la formula dell’agenzia prevede viaggio a/r più sistemazione in uno spiazzo regolarmente campeggiabile. Cosa non da poco: gli ultimi arrivati si sono dovuti arrangiare piazzando canadesi e igloo ovunque, anche sul ciglio della strada, a quattro passi dal fiume con l’umidità a duemila, di fronte al distributore Nescafè, sulle collinette in declivio. Manca la colonizzazione degli alberi o una due posti picchettata sul mainstage. Le tende sono colorati enzimi, ospiti nella pancia da mamma dello Sziget. Si ramificano ovunque come funghi dopo la pioggia. Ciò vuol dire che pause cerebrali non sono pensabili: ovunque, ti-giri-e-ti-rigiri è sempre tende, festival, beats, formicaio, fantasmi beoni. La settimana totale.
Il passepartout come ogni eurohappening di nuova generazione ha la forma del braccialetto ermeticamente chiuso e inseparabile dal polso. La fettuccia settimanale è color verde, costa trentamila forint, i fiorini magiari (120 euro), ma all’esterno puoi acquistarla da improvvisi bagarini a poco più della metà. Esiste anche il braccialetto rosso, giornaliero: al rintocco delle otto di mattina però il sogno svanisce e i doberman del controllo sguinzagliati persino nelle docce se non vedono verde azzannano senza complimenti. La soluzione è restare in tenda fino alla sera tarda quando i controllori tornano nella stiva. Però in questo modo ci si gioca l’intero luna park del pomeriggio. E cioè: living theatre e psichocabaret, jam session fusion nell’area nord; tendone Luminarium, Samba Brazilian Batucada crew a sud; quieto collasso in riva al Danubio ad est; gli Snuff puppets sul boulevard delle bancarelle, mattacchioni australiani vestiti da mucche che bloccano il traffico, chiudono la gente nelle cabine dei telefoni, fuggono a zampe levate da un altro pupazzone alto due metri e mezzo con le sembianze di macellaio crasso. “…And now, the Giuseppe Verdi’s Traviata”, verso le sei inizia persino l’opera, da assorbire educatamente stravaccati sui sacconi coi pallini di polistirolo della Blup!, quelli che assecondano la forma del corpo per un relax ai limiti dell’annichilimento.

Due olandesi, uno ancora biondo l’altro coi capelli rosso sugo, parlano degli Underworld: “Uhm…un live act poco carico, loro da una parte l’isola dall’altra”. Gli inglesi supertechno hanno suonato (11 agosto) dopo gli indigeni Anima Sound System, di cui ci importa poco o nulla, davanti a sessantamila cristiani. Lo stesso pomeriggio invece, viva l’Italia: nel calderone musicale d’Europa l’unico rappresentante, insieme agli Almamegretta che però hanno dato forfait, resta l’inossidabile Enzo Avitabile in acclamato live gig sull’enorme palco etnico Pannon Gsm. Con lui i Bottari di Portico, in percussione (anche) su enormi botti traforate. Folk mood: ubriacati dai tonfi ossessivi delle botti, spadaccini tedeschi, svedesi, e in generale nordeuropei su invito dell’autore di “Save the World”, ripetevano in napoletano addirittura sguaiato “vott’ tammorr’/tammorr’ e vott’…”.
Braccia aperte in estensione stile Willy Coyote in deltaplano e l’ennesimo audace si tuffa con l’elastico. Dodici piani d’altezza il bunjee jumping: impossibile da lassù avvertire gli ululati di Johnatan Davis dei Korn che canta “Got the Life”, anche perché gli ululati non li hanno sentiti, causa impianto pessimo (solo con i Korn però, strano), neanche l’oceano di orecchie presenti al palco principale. Gli zii americani del nu metal, comunque, fatturano il secondo incasso di sempre al festival magiaro.
Maurizio, 33 anni, folletto di Nola vicino Napoli, stravede per le distorsioni dell’HammerWorld, l’isola nell’isola dei metallari, magliette nere, carnagione bianco-garza, sorrisi a pagamento, capelli nonostante il 2005 ancora parecchio lunghi. Il nolano dice (in nolano): “m’aggio ghiut a sent’r gli Accept, poi i 69Eyes, poi i Sentenced, aropp’ me schiatt’ gli Opeth…‘a bomba”. Al Wan2 Stage ci si diverte. Davanti a mille persone sbrodolanti lattine di Dreher e un po’ di vino ungherese, si fanno avanti i Tetes Raides francesi giocherelloni che tritano rock in forma canzone scenografato da elementi circus e danze teatrali. Più in là un bimbo, massimo due anni, si regala un allegro e rivoluzionario bagnetto di fango.

Birra alla spina parecchio annacquata sul Danubio. Così come i superalcolici, serviti con fastidioso misurino, tre su quattro allungati con liquidi artatamente analcolici. I prezzi si fissano, ovviamente, su un livello molto poco ungherese e i forint scivolano via dalle tasche con la stessa facilità dell’euro (una bottiglia d’acqua da un litro? L’equivalente di 3 euro. Un microscopico chupito 4cl di JB nello Stage Fever? 600 forint). C’è l’ipermercato Auchan a seicento metri fuori dall’area festival, ma, rientrando, bisogna passare la dogana che rastrella di tutto, dalla Fanta al Bacardi. “Una bella vodka tascabile infilata nelle mutande e li fai fessi” giura uno che ce l’ha fatta. E che si è finito l’alcolico in due sorsi. Mangiare invece quanto se ne vuole. Ristoranti, anche. Cibo occidentale mischiato ad enormi zuppe di gulasch ungherese. Carne fritta in litri d’olio da cirrosi, frattaglie con interiora di animali, patatine. Con sincera preoccupazione per il futuribile digiuno c’è chi è andato a chiedere fornellini nella zona Belpaese, famosa per i succulenti pranzetti improvvisati anche solo con un filo di gas e le pentoline di Barbie. Il cibo sembra però perdere punti nella scala delle priorità anche dei famelici italiani: “Un fornelletto te serve? Che ce devi cucinà la ketamina? Mò è tardi, vediamo domani”. Sibila ancora nei timpani il violino hardcore della Teka Orchestra, specializzata in hungarian fòlk dance: sotto il capannone Roma Satòr obbligo di muoversi in forsennato girotondo, improvvisare quadriglie, brindare agli sposi, orsù.
L’isola sviluppa un flusso torrenziale di corpi. In ogni anfratto ci ritrovi corpi: gremlins replicanti nel semplice contatto con l’assenzio e i kebab. Dai corridoi principali alle venuzze interne, nel bosco ceduo esplode gustosa l’emorragia di backpackers festivalieri: trecentocinquantamila teste di cazzo con in tasca un irriferibile progetto fisso: sette giorni di accecante corrida mentale. Dal 10 al 17 agosto fare microcosmo, ragazzi, unire l’Europa creata a tavolino; strumentalizzare la musica, che non è la prima cosa, piegarla ai propri disegni edonisti ultimi. Allora si spiega il viavai gagliardamente distratto di folle unte che trattano i pezzi degli Hives, swedish rock, come radiolina di sottofondo ad altri percorsi sismici. Di casupole del “Change”, utili a cambiare la moneta unica in fiorini, il festival pullula. Dà molto l’idea di una cassa a cui chiedere i gettoni per salire sulle giostre.
Chilometri e chilometri a perlustrare le sacre sorgenti umane dell’atollo danubiano. Una meravigliosa umanità disperata, che scongiura al Messanjah Sound System impersonificato nel mastodontico dj-maori della dancehall reggae, un ultimo, scacciadiavoli, Max Romeo perché il party non imploda nella malinconia dell’alba.

La sera fa fresco. Per chi si è portato solo t-shirt della Nike fa freddo. In tanti, stretti stretti sotto il cielo privo di stelle di Budapest, si ritrovano il 16 agosto a soffiare sul ciuffo di Nick Cave, ispirato come spesso gli accade dal demone di un compositore settecentesco con l’ulcera. Franz Ferdinand? Good Charlotte? Spingi un bottone e suonano. Divertente, anche.
Dinamica becera: i concerti serali sui palchi grandi iniziano massimo alle nove e mezza. Dopodichè dj set everywhere, anche nei cessi chimici. Alla leggenda eterea dei The Wailers, dichiarata jukebox band, tocca suonare addirittura alle quattro e mezza di pomeriggio, con il gulasch sullo stomaco. Al sole ungherese, di tanto in tanto persino generoso, si esibiscono i tiepidi The Brand New Heavies e – a sputare due rime cicciute – The Game, l’mc più à la page del momento. Questo è festival: con un occhio assaggi i tondi di fuoco appiccicati su otto o dieci bolas a giro, con l’altro – in dissolvenza incrociata – insegui i drappi delle coriste di Baaba Maal (Senegal) oppure, sul djambè, le oltre dieci mani del percussionista di Mory Kante, afropop dalla Guinea, set di xilofoni di legno lussuriosi e voce androgina. I superstiti del Buena Vista Social Club con Manuel Guajiro Mirabal alle otto di sera fanno il pienone. L’orchestrina fluttuante vende, dietro un abbondante compenso di applausi, note habaneras purissime, distillate lentamente come fossero le uniche rimaste al mondo.
Superstar del worldstage, l’algerino Khaled in disimpegnato jeans e con accenni di chitarra distorta fa mugugnare qualche compaesano troppo severo. Poi intona “A Shebba” e, nella lingua coloniale, “Aicha”, così torna il sereno nell’ultima, tonante, notte di Sziget.
Annunciata da tre fasci di luce sparati al di là della biosfera, si spinge verso l’alto la Djuice Arena, cattedrale elettronica del ballo epilettico. La consolle si consuma nei dischi dei monsignori del suono: Speedy J, decano di Rotterdam, frastorna; Luke Slater, primadonna, si destreggia azzimato con la sua techno parecchio “world”. Non è solo cassa: le continue pause asfaltano altrettante rampe di lancio, prima del decollo di bassi e la conseguente precipitazione urlante dei ravers. Il britannico The Advent accelera, salutato dagli stick fluo dei danzanti, al solito asessuati, automi, in mistica adorazione solo delle musica per le macchine. L’epilogo spetta a Paul Van Dick. Fuori diluvia e l’umidità aggredisce i bpm lividi del babbo di tutte le Love Parade.
Con impietosi goccioloni di pioggia termina la settimana ungherese della musica. Il paese dei balocchi ha ovviamente tramutato i monelli del parco giochi in tanti asinelli. Ora, con gli zaini obesi e infangati in groppa guadagnano l’uscita, mesti e saturi. Prima di attraversare il ponte ferrato, toccare il continente e andar via, c’è da chiedere una cosa. “What does it mean Sziget, ma che vuol dire poi Sziget?”. “Isola, significa isola”. “Ah. Appunto. Thank you”.
Bye.

Autore: Sandro Chetta
www.szigetfestival.it

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