Prima del concerto è stato praticamente impossibile avvicinarli: sequestrati dai giornalisti del Manifesto, I Buzzcocks sono arrivati dall’albergo qualche minuto prima di salire sul palco, quando lo show era ancora strimpellato insieme alla chitarra dei Langhorne Slim, mentre un mostro a tre teste a metà tra un roadie, un buttafuori e una badante li teneva sotto controllo e li trattava come dei vecchietti di una casa di cura al concerto dei nipoti.
“Il punk invecchia” ho pensato, meditando una seduta intensiva di Shakira e Beyoncè.
Vecchi e rugosi, ok, ma i Buzzcocks sono pur sempre inglesi, e la puntualità la conoscono bene: sono le undici e mezza, sei ore dopo l’ora del thè, e salgono sul palco dell’Arenile con un salto caricato da un palco a caso, nel 1977. I Buzzcocks sono Pete Shelley e Steve Diggle. Sono loro per una questione di MCD, che suona tipo massimo comun denominatore, ma accantonando una metafora già partita male, in parole povere la questione è questa: nasce il punk. Inghilterra. 1976-77: creste, pogo, chitarre sbattute come puttane e distrutte come chitarre distrutte, denti marci, se ci sono ancora dopo i cazzotti presi e dati e nel frattempo i Buzzcocks si formano, poi si sciolgono, poi si riformano per sciogliersi ancora. Poi si riformano. Insomma sbarcano negli anni novanta e toccano pure i duemila.
Shelley e Diggle sono sempre lì, mentre i satelliti cambiano. Shelley e Diggle sono i Buzzcocks e tengono legato per una catena il mostro del punk, sporco, putrefatto, lo trascinano sul palco con loro anche questo 3 luglio, a Napoli per festeggiare i ventanni del nostro magazine. Gli danno uno zuccherino, poi lo sciolgono e allora tra il pubblico, sotto al Vesuvio, la folla si apre in crateri e poi esplode. Esplode su Boredom, prosegue con Fast Cars, si fa solenne con Authonomy, fino al grande botto con Whatever happened to…? .
All’inizio si fa un po’ di fatica a pensare che il nonno panzuto dietro il microfono, vestito con una maglietta probabilmente recuperata dal fondale della cesta di un oratorio, sia effettivamente lo stesso che nel video della versione live di Ever fallen in love ha tutta l’intenzione di fregare il posto a Johnny Rotten.
Shelley sembra, a prima vista, un vecchio ubriaco che canta ad una sagra di paese. La voce gli manca a tratti e Diggle alla sua destra entra a sostenerlo nelle canzoni più volte: il concerto è suo. “Secondo chitarrista, seconda voce…a chi?” avrebbe potuto gridare Diggle dal palco: ha una camicia bianca a pois e ancora tutti i capelli in testa, si dimena come un pazzo o solo come uno che finalmente dopo anni di attesa tocca con mano la sua rivalsa.
Nel frattempo il pogo è veramente cattivo e si sovrappone a strati di groupismo convinto, che si dimena alle transenne. Alla fine del concerto le creste postmoderne sono meno appuntite, i vestiti sono a terra, insabbiati, qualcuno s’è fatto un po’ male, altri polemizzano sulle differenze filologiche del pogo tra salernitani e napoletani. I Buzzcocks si arrampicano sulla scaletta nella parte finale ed è una corsa, disperata, intensa, verso il godimento totale: Harmony in my head, Oh shit, Ever fallen in love. Salutano il pubblico di Napoli con Orgasm Addict, l’ultimo colpo di coda ad un Arenile che è stato assaltato dai pirati.
Gli facciamo un’intervista come si deve. Dopo il quarto d’ora accademico in cui probabilmente hanno dato fondo alle bombole d’ossigeno come un tempo davano fondo a un Jack Daniels, Diggle e Shelley siedono nel backstage su un divano comodo e un sacco professionale, che sembra di stare a mtv, però quella alternativa di mezzanotte. Quindi bello.
Durante l’intervista i ruoli che i due leader assumono sono netti: Diggle è quello serio, misterioso, il poeta dalle risposte profonde; Shelley è il cabarettista, il ragazzino adolescente che cantava Fiction Romance e chissenefrega del resto. A tratti un po’ tonto, come solo Benny Hill.
Avete iniziato nei settanta, siete tra i padri fondatori della rivoluzione punk: che differenza c’è tra il punk che si faceva allora e quello che si propone oggi?
Shelley: Quando abbiamo iniziato a fare musica, il punk non piaceva a nessuno. E sembrava che a nessuno sarebbe piaciuto. È stata una piacevole sorpresa vedere come sono andate dopo le cose…
Diggle: Abbiamo iniziato con i Sex PIstols, i Clash, allora il punk è uscito fuori come un’esplosione nucleare. A quei tempi c’era l’attitudine giusta, oggi non ci sono più band così in giro, non so perché, ma non hanno più la stessa verve, ecco perché viene ancora così tanta gente a vedere noi.
Cantare pezzi come Oh Shit o Orgasm Addict nel pieno della rivoluzione punk suonava provocatorio e oltraggioso. Cosa si prova a cantarle adesso, ad un pubblico molto più difficile da scandalizzare? Vi sentite ancora punk?
Shelley: Si, credo di si. Ma in quegli anni, fare canzoni provocatorie significava semplicemente dire qualcosa che non era stato ancora detto. Scandalizzare non era il nostro primo obiettivo: noi volevamo solo trattare temi che ci riguardavano da vicino, una musica che parlava dei giovani. Prima del punk la maggior parte della musica era vecchia. Non volevamo infastidire con quegli argomenti, li toccavamo per necessità, perché nessuno ancora lo faceva ma tutti lo aspettavano. È stato questo a scandalizzare, suppongo.
Diggle: Toccavamo argomenti della vita quotidiana in cui i ragazzi potevano identificarsi. A questo punto, una volta che la gente ha iniziato ad ascoltare punk si è detta “che cazzo ho ascoltato fino ad ora?” Il punk ti insegna a guardare bene il mondo intorno, è consapevolezza sociale e politica.
Shelley: è stata proprio una rivoluzione.
Quattro decadi di attività per i Buzzcocks. Che rapporti avevate con le altre band? Com’è cambiato lo scenario intorno?.
Shelley: Sorprendentemente è stato ciclico. A un certo punto, soprattutto negli anni ottanta, sono venute fuori band con un tipo di musica che noi personalmente non ci saremmo mai sognati di fare [non fanno nomi, politicamente corretti? Ndt]; invece di dirsi “Oh, la musica sta nettamente migliorando!”ciò di cui ci rendevamo conto era che si stava scivolando verso il basso. Per fortuna dopo aver toccato il fondo ha iniziato a risalire.
Diggle: Mtv e i talent show britannici sono molto nocivi per la formazione mentale e culturale delle persone. Guardano la musica in tv con la stessa superficialità con cui si compra il pane al supermercato. Hanno trasformato la musica in business, in un fatto di mercato, non dovrebbe essere così. Noi siamo veri, siamo umani, questo molti lo capiscono ed è per questo che vengono a vederci, per assistere a qualcosa che non passano in tv.
Shelley: perché noi non siamo MAI in tv (ride). Per adesso almeno…
Qual è il motivo principale per cui ne vale la pena essere i Buzzcocks?
Shelley: Non saprei, è come se mi chiedessi cosa mi piace mangiare a colazione…
Diggle: quello che amo è vedere la gente che ti ferma ai concerti solo per dirti “questa canzone mi ha cambiato la vita”; la consapevolezza che in quei momenti, quando sono ad ascoltarti, ciascuno si chiede cos’è che vuole davvero. Avviene uno scambio reciproco tra pubblico e palco.
Shelley (ironico): certo, queste sono domande che mi faccio tutte le notti, verso dove sto andando, da dove vengo…domande pesanti.
Diggle (serio): noi ci facciamo le stesse domande relativamente alla musica: da dove veniamo e verso cosa stiamo andando.
Veniamo da anni in cui la musica era veramente importante per la gente…
Shelley: taaaanto, taaaanto tempo fa….
Diggle e Shelley: C’era una volta un tempo in cui la musica era taaaanto importante….
Sentite cambiato allora il rapporto con il vostro pubblico?
Shelley: se tutto va bene, non sono ancora tutti deceduti. Ci piace pensare che la maggior parte sia sopravvissuta. Ma la cosa bella è vedere un sacco di giovani ai nostri concerti che si divertono anche più di come facevano i loro genitori.
(ad un certo punto il bassista irrompe sulla scena e mi dà una carota in mano. Il backstage è pieno di ortaggi crudi…)
Diggle: è importante che le nuove generazioni ci tengano come punto di riferimento. I gruppi di oggi sembrano inseguire solo il successo, senza avere molto da dire.
Quindi, in sostanza, che differenza c’è tra questa carota e la scena musicale di oggi?
Shelley prende in mano la carota. Finge di rosicchiarla poi improvvisa un’imitazione di Bugs Bunny. “Hey, what’s up doc?”.
Diggle (lontano dal microfono, verso il bassista riferendosi a Shelley: “Sono anni che non ne vede più di carote così dritte!”): questa carota è molto più simile a noi. È un ortaggio. È qualcosa di organico che nasce dalla terra e va verso l’alto.
Che consigli potete dare ai musicisti che vogliono farsi spazio oggi nel mondo della musica?
Shelley: di trovarsi un altro lavoro!
Diggle (ammonisce Shelley con uno sguardo): è importante tornare alla poesia, all’arte, ai libri…
Shelley:…ai fumetti…
Diggle:….pensare bene a quello che fanno, avere una consapevolezza politica….Tutti i media nel mondo globalizzato opprimono l’individuo e lo privano di personalità la musica è un modo per ritrovarsi. Come Michelangelo…
Shelley:… era gay….
Diggle: ….quando ha dipinto la Cappella Sistina….
Shelley:…lo faceva canticchiando….
Diggle:…quando la gente vede grandi opere può solo restarne ispirata. L’ispirazione apre alla vita, noi cerchiamo di ispirare le persone…
Concludiamo con una domanda esistenziale che si sono fatti tutti i fan del punk almeno una volta nella vita. Si dice continuamente che il punk è morto, lo hanno detto pochissimo tempo dopo la sua irruzione sui palchi d’Inghilterra, lo hanno continuato a dire quando persisteva sui palchi di tutto il mondo gli anni a venire. Voi cosa ne pensate?
Shelley: l’unico ad essere morto qui in giro è Michael Jackson. Il punk è ancora socialmente in vita e anche se morisse le sue gesta resterebbero eterne, resisterebbero al tempo.
Diggle: Noi abbiamo canzoni che hanno resistito agli anni e alle generazioni: molte delle band che sono venute dopo di noi sono state solo delle imitazioni, non avevano caratteristiche proprie. Il punto è: sii te stesso. I Clash i PIstols, i Buzzcocks sono band dotate di grande personalità. Voglio vedere band più creative.
Shelley: pensate che noi siamo l’unico gruppo punk storico che è arrivato a fare un album nel nuovo secolo.
Diggle: E se dicono che il punk è morto allora possiamo dire che i Buzzcocks gli sono sopravvissuti e lo hanno seppellito. Noi abbiamo ispirato quello che oggi la gente chiama punk, come i Green day, che sono solo una versione più moderna dei Buzzcocks.
Shelley: la rivoluzione per i Buzzcocks è ancora in atto!
Autore: Olga Campofreda / foto di Lucio Carbonelli
www.buzzcocks.com