Mentre volge al termine la sua tournèe autunnale attraverso l’Italia assieme a Willard Grant Conspiracy, poniamo qualche domanda a Cesare Basile, enigmatico e gentile cantautore siciliano che è riuscito, negli ultimi 5 anni, a guadagnarsi considerazione e stima da parte di prestigiosi colleghi italiani (Manuel Agnelli, Marco Parente, Marta Collica) e stranieri (Hugo Race, John Parish, Stef Kamil Carlens), catalizzando attorno a se tanto movimento artistico e collaborazioni varie.
Il suo ‘Hellequin Song’, pubblicato agli inizi del 2006, si candida ad essere uno dei migliori dischi italiani dell’anno, ma l’attenzione di Cesare sembra piuttosto indirizzata alla ricerca incessante di nuovi stimoli artistici, nuove possibilità di interagire su un palco come davanti ad un 4 piste d’incisione. Ed intanto, a Dicembre 2006 esce per la Mescal un DVD/CD Live, registrato questo stesso anno a “La Casa 139” di Milano.
Nel tuo ultimo disco ‘Hellequin Song’ ho notato che qua e là tu ricorri (molto più che nel disco precedente) al blues, alla voce filtrata in lontananza, alla lingua inglese, alla registrazione low-fi, quasi a voler rendere l’ascolto più difficoltoso, ed il disco meno pop; inoltre distribuisci questi ‘ostacoli’ lungo tutto il disco, in modo che non ci siano parti troppo “rassicuranti” per l’ascoltatore…
Non mi piace disseminare ostacoli, però mi piace che chi ascolta i miei dischi gli dedichi dell’ attenzione, un po’ di tempo. Mi piace che si instauri un rapporto, anche conflittuale, con le mie canzoni; in qualche modo è lo stesso tipo di rapporto che ho io con le mie canzoni, e ti assicuro che neanche per me sono rassicuranti.
Non scrivi molte canzoni d’amore, e quando lo fai parti da angolazioni inconsuete (‘Usa tutto l’Amore che Porto’, su un amore che sembra cominciare, ‘To Speak of Love’, su uno che finisce…). Consideri l’amore un argomento inflazionato?
Assolutamente no. Le canzoni d’amore sono un’ asse portante della musica di tutti i tempi e sono anche un territorio in cui si gioca pesante. Credo che ad essere inflazionati sono quelli che pensano di scrivere canzoni d’amore senza correre rischi. L’ amore è un rischio e una cura sia che tu ne scriva, sia che tu ne venga coinvolto.
In Italia c’è da sempre diffidenza culturale e ostruzionismo verso il rock indipendente. Più che ostruzionismo a muso duro, si tratta di un sistematico ignorare il fenomeno, occultandolo al grande pubblico. Così, per farsi accettare, alcuni han provato ad andare a Sanremo (Bluvertigo, La Crus, Subsonica) o ad ammorbidire la propria musica (il recente “s-low tour” dei Marlene Kuntz), altri giocano in contropiede presentandosi all’estero; Marco Parente mi diceva che lui ad ogni modo non si sente a suo agio nè nel mainstream, nè nel ghetto indie rock. Tu avverti questi problemi? Come ti poni, al riguardo?
Ho smesso di pormi questi problemi da tempo. Ognuno si tiene la propria ignoranza o la propria malafede. Quello che mi interessa maggiormente è fare dei buoni dischi, impegnarmi a fondo nell’ evitare la volgarità.
Negli ultimi mesi mi è capitato d’ascoltare l’ultimo disco dei Tellaro, di Sepiatone, quello di John Parish, poi Songs for Ulan ed il tuo ‘Hellequin Song’. Apparte l’amicizia che c’è tra tutti voi, c’è anche un legame artistico, un filo che lega questi lavori: avete in partenza la stessa visione della musica, o piuttosto è la frequente collaborazione che ha contribuito a compattare la vostra produzione?
Fondamentalmente c’è la condivisione di un’ attitudine a fare musica e va da se che lavorare insieme porti uno scambio di idee, un insegnare e apprendere che in qualche modo tesse una trama attraverso le rispettive produzioni. C’è un blues dell’ anima che ci unisce e che ci ha fatto trovare.
Sempre riguardo le tue tante collaborazioni con artisti italiani e stranieri, mi chiedo in che misura siano davvero così spontanee come si dice (la leggenda racconta che talvolta vi ritroviate casualmente nello stesso posto con le chitarre ed un 4 piste lì vicino, e così decidiate di incidere qualcosa insieme…).
Non è leggenda. Quasi tutte le mie collaborazioni sono nate da occasioni fortuite che poi si sono trasformate in rapporti continuativi…
Proprio al riguardo: ci racconti come è nata l’idea del tour con Willard Grant Conspiracy, in questo Autunno 2006?
Beh, è successo proprio questo, con Robert (Fisher, a.k.a. Willard Grant Conspiracy; nda). Lui ha avuto il mio disco dalla cyc promotion e mi ha invitato a condividere il suo tour italiano. Sul palco non abbiamo fatto altro che mischiare i nostri repertori come se fosse un unico concerto, imparando a suonare sulle canzoni dell’altro man mano che il tour andava avanti.
John Parish o Manuel Agnelli ti riconoscono d’avergli offerto l’opportunità di scoprire e apprezzare la Sicilia. E qual’è il fascino del tuo studio d’incisione di cui tutti parlano, lo Zen Arcade? Pietro de Cristofaro (Songs for Ulan) una volta mi fece intendere che in pratica è il garage di casa tua…
La Sicilia è il mio rifugio e per me è un piacere dividerlo con le persone che stimo e costringere mia madre a cucinare per loro. Zen Arcade è un rifugio segreto, è un garage, è una vecchia sala prove, è un posto buono per farsi un po’ di birra e aspettare che le idee prendano corpo. E’ questo il suo fascino. E non è uno studio di registrazione.
Il progetto “Songs with other Strangers” è stata soltanto una parentesi? Non c’è mai stata l’intenzione di incidere un disco, o almeno di riprendere prima o poi la tournèe del 2005? Mi pare che sul tuo ‘Hellequin Song’, poi, abbiano suonato in pratica quasi tutti i componenti di quell’esperienza…
Hellequin Song è stato in qualche modo un banco di prova per Songs with other strangers e, visti i risultati, probabilmente anche uno stimolo a realizzare qualcosa in studio prima o poi. La verità è che non è così semplice mettere insieme tanta gente disseminata per il mondo e trovare il giusto tempo per ognuno di noi. SWOS è un progetto d’ improvvisazione legato al momento, speriamo di ritrovarci in quel momento al più presto.Autore: Fausto Turi
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