Francese di nascita ma apolide per vocazione, Thomas Belhom mette nella musica il suo grande desiderio di libertà e l’insofferenza verso ogni sorta di frontiera e passaporto, come emerge già dal titolo del disco, lui che dopo il suo periodo americano nell’Amor-Belhom Duo è dovuto tornare in Europa poichè – se capisco bene – non riuscì a rinnovare il visto di soggiorno in quel Paese in cui, dopo l’11/11, anche i musicisti stranieri sono tenuti d’occhio e visti con sospetto.
L’Amore di Belhom per un certo tipo di America assolutamente reale ma anche da cartolina – deserto, cactus, Oceano, polvere, grandi spazi e stile di vita chicano – lo porta senz’altro ad indugiare su un’olografia suadente ma non proprio originale, che abbiamo conosciuto attraverso i libri di Michael Connelly, i film di John Ford, i dischi di Giant Sand, Calexico, Songs for Ulan o Early Day Miners, con 11 canzoni pigre e semiacustiche nelle quali il francese – che nasce percussionista ma qui prende in mano la situazione con buona prova alla chitarra e alla voce – canta in inglese le sue storie di spazi sconfinati, in cui la natura stessa è quasi sempre protagonista.
E così sfila nello stereo il texmex agitato omonimo ‘No Border’, il pinkfloydiano ‘Always’, la cupa ‘South over the Seven Hills’ sussurrata dall’ospite Stuart Staples (Tindersticks), due sole canzoni in lingua francese e diverse ballate acustiche ben arrangiate, magari deboli, qualche volta furbette, alla ricerca cioè della suggestione olografica di cui dicevo in precedenza: effetto cowboy solitario a cavallo che s’allontana lento di spalle nel deserto verso il Sole al tramonto col vento caldo che fa rotolare la balla di fieno.
Ad accompagnare Thomas Belhom alla voce c’è talvolta sua moglie Viva Yazon, pittrice, che a quanto pare divide col marito una vita seminomade a bordo di un caravan in giro per l’Europa.
Autore: Fausto Turi