Abbiamo intercettato l’astro di Marco Parente poco prima che salisse sul palco dell’Iroko Content, nell’ambito di “Saturday Rock Live”, rassegna che ha il merito di disegnare in una piazza altrimenti periferica come quella di Salerno un affresco di prim’ordine della musica italiana, scevro dai soliti luoghi comuni pseudo-cantautorali e pseudo-melodici. Qui, in occasione dell’uscita del suo ultimo disco, il secondo episodio di “Neve Ridens”, ci regala una conversazione a cuore aperto su neve, poesia, e amore.
E’ un po’ una somma questo disco, un punto fermo, la necessità di voler chiudere un cerchio, una focale in aria…Si, si chiude proprio un lungo periodo e si chiude nella maniera più estrema..
Coi capelli bianchi…
Coi capelli bianchi, coi pensieri ma anche con una svolta all’orizzonte.
E qual è questa svolta?
Prima di tutto di vita.
Ti fidanzi?
Questa è roba personale (ride imbarazzato)… Però, di conseguenza, sto scrivendo tantissime cose nuove.
Molte cose che sono convogliate in questo nuovo lavoro, in questa seconda parte di Neve Ridens, vengono da altri universi, per esempio, quello teatrale (lo spettacolo Il Rumore dei Libri), quello performativo, nel convogliare altre esperienze musicali come il suono delle lamiere nel brano Neve che ha un rapporto forte con la musica concreta. Dico, stai scrivendo per la musica o ci sono anche dimensioni altre?
Si chiude un cerchio e quindi la ripartenza dovrà essere minimo l’esatto opposto e quindi quello che sta venendo fuori avrà tutt’altra leggerezza. Sarà una concessione alla canzone più pura.
Infatti avrei voluto cominciare l’intervista chiedendo, invece, qual è il rapporto con l’universo del rumore, nell’allargare lo spettro sonoro come hai fatto in questo disco e in alcuni episodi del tuo passato, come in Pillole buone per esempio, dove a mio avviso il remix di Fuck (he)art & let’s dance è una pietra miliare dell’elettronica italiana.
Eh, sei uno dei pochi (ride compiaciuto).
Quegli episodi sono stati piuttosto criticati. Se c’è una cosa che è stata criticata, sono stati proprio quegli episodi lì, ma lo sapevo e me ne sono assunto la responsabilità.
Per tornare invece all’ultimo lavoro, è come se ci fosse sempre più consapevolezza col passare del tempo e dei dischi, come se operassi un costante processo di inglobamento di questi universi apparentemente antitetici: armonia, rumore. Come è nata questa sintesi? Se c’è….
Sicuramente esiste una doppia faccia che è, appunto stata ben approfondita nei due lavori di Neve Ridens. Una sorta di schizofrenia che, evidentemente, è nel mio carattere musicale per cui sono sempre sul punto di voler scrivere una canzone per me perfetta e che possa essere il più perfetta possibile anche per più persone possibili. Una canzone pop da un certo punto di vista.
Che contenga tutto?
Si, che contenga tutto. Dall’altra parte, invece, mi piace mettere in discussione la canzone, scardinarla.
Ma quindi farai canzoni d’amore?
Assolutamente si. Le ho sempre scritte. Ora sono canzoni più o meno cupe e, probabilmente, in questo periodo della mia vita saranno canzoni più leggere.
Ridens?
Ridens, si.
In questo disco sono cambiate due cose a latere rispetto a quello musicale e paramusicale, e che mi hanno colpito: quello vocale, dell’intonazione e anche della grana della voce, che pare uscire dall’ottica della canzone perché si frammenta nel magma sonoro, in cui i testi sono scanditi in modo solenne e lento, le note vocali sono tenute fino a confondersi con la musica, una costante questa che mi sembra una linea interpretativa di tutto il disco, così come. Così come i versi, che, rispetto ad altre canzoni, se li vedi stampati, hanno la dimensione spaziale delle liriche minimali, con gli spazi bianchi superiori alle parole.
Il punto di arrivo di Neve Ridens, a parte questo punto di vista che hai messo a fuoco, è l’uscita del DVD che comprende lo spettacolo del Rumore dei libri, che è la parte, appunto, più sperimentale, più performativa, in cui c’è il discorso focalizzato sulla parola, per cui ho iniziato ad usare un archivio di poesia sonora e quindi la parola sonora, perché era la cosa alla quale stavo arrivando.
Con lo spettacolo del Rumore dei libri, questa ricerca ha trovato il suo vero punctum. Forse questo DVD più che i due Neve Ridens, è la conseguenza visiva, la messa in scena di quel lavoro. Perché sono arrivato ad una forma di conclusione o almeno mi sono giustificato, in un certo modo, nella mia ricerca sulla parola, mi sono dato pace, pensando che la parola codificata nel modo in cui la pensiamo, è molto limitante, e lo è ancora di più se la si applica a delle forme della musica, e questo confronto con la poesia sonora e quindi con altri artisti che hanno incentrato sulla parola questa ricerca, fanno capire che forse a me arriva molto di più il significante del suono della parola più che il significato codificato.
Il significante.
Il suono nella sua sensazione, per come viene detto, per come viene intonato, può diventare uno dei punti nevralgici della comunicazione tra gli esseri umani: il fatto che ci ostiniamo a dire che quella è una sedia quando potremmo dire che quella, forse, è una forchetta e, invece, che quel tavolino non è un tavolino, ma un occhio. E tutto questo tramite il suono viene messo in discussione e suscita e crea un terzo, quarto, quinto, sesto significato della parola. Quello è il punto, e oltre il quale non ho nemmeno voglia di andare, lì sono arrivato.
Mi venivano in mente le installazioni di Joseph Kossuth quando parlavi della sedia e del suo aspetto testuale. D’altro canto, però, coi testi hai sempre evocato delle immagini, perlopiù filmiche. Ricordiamo, appunto, il Posto delle fragole, Michelangelo Antonioni, Ascensore inferno piano terra, pezzo che ha un’analogia forte per atmosfera musicale con Miles Davis ed alla sua colonna sonora di Ascensore per il patibolo, e poi Falso Movimento.
Ma anche Come un coltello che ha riferimenti ad American Beauty …
C’è il cinema, ispirarsi alle immagini del cinema è un aspetto della medesima ricerca. Tu parli di immagine e allora anche la parola dell’immagine, quindi se non è il suono è l’immagine che ha un significato che con la parola è evocativo.
Sempre a proposito delle immagini che evochi nel disco, perché un napoletano come te ha dato importanza alle neve come elemento ricorrente, come costante?Questo è molto semplice: nelle mie vene scorre anche sangue svedese, mia madre è svedese e allora si spiega l’attrazione verso il freddo e verso il nord. Io me la sono sempre spiegata così questa divisione genetica tra babbo napoletano e mamma svedese che ha creato un’attrazione forse, fino a questo punto, più verso il nord che verso il sud, forse perché ci sono nato al sud, perché sono andato via o forse proprio perché per mia natura sono sempre stato attratto dall’elemento neve, dall’elemento freddo, dall’elemento nord.
Questo disco, come suono, sembra appunto cercare una sorta di raffreddamento, anche per l’uso d inserti di musica concreta o di atmosfere jazz sempre molto dilatate. Tra queste esperienze di raffreddamento, c’è invece un episodio che mi sembra andare totalmente in direzione contraria, quello di Amore cattivo in cui metti in scena una prova di forza, suonando con la tua band un fraseggio rock fino al punto di esasperazione. Volevo sapere se questo tipo di esperimento, legato ad una musica che sia anche rockettara, è già un nuvolo di qualcosa che deve avvenire rispetto ad un disco che, per il resto, è effettivamente innevato.
Amore cattivo è sicuramente un episodio fuorviante rispetto a tutta la linea dei due Neve Ridens. In cui se di amore si parla, lo si analizza in una maniera più oscura. Come si dice che l’amore è bello: l’amore è anche cattivo. Poi non so spiegarti bene l’idea di quella coda improvvisa che è veramente una concessione al rock, ma che è, però, quasi una provocazione al rock stesso. E’ stata una diretta, abbiamo suonato per dieci minuti, forse anche di più, quattordici minuti, fino a farci venire le bolle sulle mani, proprio come una sorta di provocazione, quindi di insistenza, di minimalismo e di negazione, alla fine, di quello che, invece, può essere la leggerezza del rock’n’roll.
Il citarlo per provocarlo.
Per mettere in evidenza certe strutture che suonano tacite, pacifiche, nella norma.
E alla fine sono più prevedibili, più schematiche di una canzone pop che comunque ti può sempre sorprendere.
Un discorso affine a quello che facevano i Residents: la vera musica nazista che plagia le menti è proprio il rock’n’roll. Non so se questo è il discorso che volevi fare tu.
Abbastanza, abbastanza. Io credo di avere assolutamente un approccio rock’n’roll che non è il rock, è diverso. E’ comunque un approccio che tiene conto di quanto il rock si sia conformato, cioè è partito come anticonformismo ed è diventato, forse, la forma più conformista della musica moderna. E’ anche il pubblico che si è seccato di queste cose. Ogni volta che vai fuori minimamente da quegli schemi non sei riconosciuto o non sei apprezzato o addirittura sei criticato, perché il rock è come una fede, come una religione. Mi piace tantissimo l’approccio al rock’n’roll e in questo senso vorrei mantenerlo in qualsiasi forma di ricerca e di approccio.
E’ di nuovo il discorso di Fuck (he)art & let’s dance e di Pillole buone.
E’ la stessa cosa. La cultura diventa istituzione. Io dall’altra parte mi permetto l’approccio e la leggerezza a quell’approccio.
Proprio mettendolo alla berlina, cioè renderlo visivo, smascherato.
Certo. Fuck (he)art & let’s dance non è una frase mia, è una frase di Ferlinghetti che, però, appunto, in quel momento lì ha rappresentato quella parola.
Tu hai una band straordinaria che ha sempre apportato molto, ascoltando il disco, ma anche dal vivo, delle loro esperienze personali nella tua musica. Ogni pezzo è nato in un modo peculiare, ed in un dato periodo, ognuno ha un suo arrangiamento.
Mah, nel momento in cui mi trovo ora posso dire che quella band, quei musicisti, quei dischi hanno avuto il loro corso e decorso. In questo momento la band di Neve Ridens non esiste più, sia per motivi pratici sia perché si è fatto quello che si doveva fare.
Quella era la band di Neve Ridens che ha fatto la tourné da ottobre a dicembre, perché ora il tastierista sta suonando con gli Afterhours ed il chitarrista con Capossela.
Te l’ha rubato Capossela…
Eh me l’ha rubato…(ghigno). Ma è giusto.
E’ stata talmente forte quell’esperienza che ha portato frutti per tutti, come doveva essere.
Anche perché per Neve Ridens Due già avevo in testa di fare una turnè diversa proprio perché il secondo lavoro non respira così tanto l’interazione del gruppo ma erano anche episodi minimali, da solo, insomma era un esperienza più aperta, in quanto Neve Ridens Uno era il suono di quel gruppo, creato apposta per quel gruppo e per quel lavoro.
Non voglio essere presuntuoso, ma è stata veramente una delle band più coinvolgenti ed originali.
Una band pazzesca, anche perché tutte esperienze diverse che trovavano una sintesi in quell’esperienza. L’unione, ad esempio tra un bassista così presente e magari un tastierista così minimale, è una sintesi difficile da trovare.
Si, un gruppo magico.
Ma ci ritornerai a suonare in quello che stai preparando di nuovo?
Ora nelle cose nuove che sto scrivendo sono tornato in completa solitudine. La dimensione che mi serve di più in questo momento, che sto cercando è da solo.
Vorrei farti una domanda sull’esperienza delle open songs (canzoni aperte, un esperimento di condivisione e scambio di materiali sonori originali di Marco Parente tra tutti i musicisti che da questi vogliono partire per creare nuove esperienze musicali) che trovo interessante sotto l’aspetto estetico, pure perché ritorna anche lì lo spirito di Pillole buone, dell’aggregare delle macchine elettroniche sulle quali puoi cantare. E volevo sapere come ti è venuta quest’idea.
Quel progetto è nato perché in fondo sono sempre stato curioso e generoso, per cui mi era sembrato, una volta terminato il disco, l’idea possibile grazie nuovi media, di poter smembrare quello che io ho fatto, almeno nella fase iniziale perché era quello che mettevo a disposizione, ora si è ampliata, l’idea di mettere a cuore aperto sul tavolo quello che ho assemblato e metterlo a disposizione di tutti. M’incuriosiva tantissimo l’idea che qualcuno potesse avere una versione diversa, quindi far generare tutt’altra cosa da quello che doveva essere il mio scritto come canzone. Poi l’incontro anche con delle intelligenze musicali, e penso a d.raD in particolare, allora lì si è ragionato proprio speditamente sull’idea di frammento, su un unità di senso che non sia l’idea classica di remix, ma la trasfigurazione in fase morphing di una canzone messa in un frullatore e che diventa. Sono molto stupito rispetto a certi bei discorsi che si fanno sulla condivisione, in quanto poi all’atto pratico ognuno è estremamente geloso delle proprie cose, invece.
Soprattutto i musicisti che arrivano ad una notorietà…
Proprio loro potrebbero, visto che vivono benissimo di quello che fanno, essere altrettanto generosi. Io non vivo così bene di quello che faccio, però, commercialmente, non ho mai pensato che un pezzo del genere potesse danneggiarmi in qualche modo, anzi. Ho sempre pensato che se sono convinto di quello che faccio, sono convinto che anche le persone che si avvicinano al mio mondo, prima di tutto vogliono anche l’originale di quello che hanno ascoltato, quindi se metto a disposizione del materiale e quel materiale piace, chi è interessato si incuriosisce a tal punto che anche se copia o se masterizza un mio disco, sicuramente ne comprerà in futuro, verrà a vedermi dal vivo ecc… Credo nello spessore della giustizia di questa cosa. Probabilmente, molti personaggi famosi hanno paura di tutto ciò perché forse non sono così convinti neanche della purezza di quello che fanno.
Chiudo con una domanda di cui un po’ mi vergogno: A che punto è “la tua rivoluzione”?
E’ ad un gran buon punto….Autore: Pasquale Napolitano (special thanks to Annalisa Gambardella)
www.marcoparente.it – www.falsomovimento.it