Quando Giambattista Vico formulò la teoria dei corsi e dei ricorsi storici, sicuramente non pensò che tale principio potesse trovare applicazione per analogia anche nella disamina delle più varie manifestazioni dell’umanità, ivi compresa quella artistica e, per quanto concerne la nostra trattazione, la musica e specifici suoi “generi”. Di “corsi” e “ricorsi” sta, infatti, vivendo il folk di matrice “celtica” (definito non a caso nel tempo più volte “revival” e suddiviso in più “movimenti”) che, negli ultimi anni, è tornato alla ribalta e ha occupato le pagine delle riviste di settore, soprattutto grazie al successo riscontrato da diversi gruppi, quali i Lankum e i The Gloaming …; e in particolare i Lankum stanno facendo parlare di sé, soprattutto, dopo l’uscita del loro ultimo disco “False Lankum” (Rough Trade). Sul punto, però, torneremo successivamente poiché è d’uopo, in ragione anche della citazione vichiana, evidenziare come una (ri)scoperta della musica tradizionale della “terra d’Albione” fu una caratteristica che segnò, con incisivo vigore, la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta, con una diffusione e un grande successo internazionale.
Partendo da un periodo prossimo al nostro (e tralasciando la prima riscoperta del folk britannico operata tra il finire del 1800 e gli inizi del 1900 anche grazie all’apporto di “studiosi” quali Carl Engel, Francis James Child, Reverenda Sabine Baring-Gould …), l’Irlanda, nei primi anni sessanta, vide nei Ceoltóirí Chualann di Seán Ó Riada forse la massima espressione di genere, formazione da cui nacquero, sempre negli anni sessanta, i The Chieftains.
In Inghilterra, invece, fu Ewan MacColl (autore tra l’altro nel 1957 del classico “The First Time Ever I Saw Your Face” – reso celebre da Roberta Flack – ma soprattutto di “Dirty Old Town” del 1949, famosa nella versione dei The Pogues), promotore della necessità di riscoprire la canzone popolare.
Da qui inizia così a riecheggiare, per i locali della Gran Bretagna, sempre più un suono che trova radici nella tradizione e iniziano a imporsi musicisti di livello assoluto, autori di dischi che segneranno la storia della musica intera inaugurando l’età d’oro del “secondo” folk revival britannico, sia in chiave “pura” che contaminato ed “elettrificato” e a cui va il merito di aver esportato e “sdoganato” oltre i circuiti “tradizionali” una musica da troppo legata alla terra di origine.
Provando a seguire una cronologia, in via esemplificativa, di pregio possiamo annoverare: “Folk Roots, New Routes” del 1964 a firma dell’eccelso chitarrista Davy Graham e di Shirley Collins (mentre Davy Graham, tra l’altro, pubblicherà nel 1962 “Angi”, inciso come “Anji” anche da Simon & Garfunkel in “Sounds of Silence”, Shirley Collins darà alle stampe, con la sorella Dolly, “Anthems In Eden” nel 1969 e “Love, Death And The Lady” nel 1970 nonché, accompagnata dai The Albion Band, nel 1971, “No Roses”); del 1964, ancora l’omonimo disco (in cui compare nuovamente con il nome “Angie” la firma di Graham) dello scozzese Bert Jansch che pubblicherà, nel 1966, l’altro caposaldo “Jack Orion” (da ascoltare “Black Water Side” che sicuramente porterà alla mente “Black Mountain Side” dei Led Zeppelin). Jansch con John Renbourn (di quest’ultimo da ricordare “The Lady and the Unicorn” del 1970 per il suo “antico classicismo”), dopo “Bert & John” del 1966, fonderanno i Pentangle con i quali pubblicheranno (per tutti) gli splendidi “Basket of Light” nel 1969 (in cui spicca “Light Flight”) e “Cruel Sister” nel 1970 (in cui si impongono il brano eponimo e nuovamente “Jack Orion”, qui portata a una durata di più di diciotto minuti).
Ancora da annoverare gli Steeleye Span con “Please to See the King” e “Ten Man Mop, Or Mr. Reservoir Butler Rides Again” entrambi del 1971 e Alan Stivell (Alain Cochevelou), bretone e interprete della riscoperta “arpa celtica” (strumento ricostruito dal padre di Alan come si apprende anche da https://it.wikipedia.org/wiki/Alan_Stivell – consultato il 18 gennaio 2024), arpa immortalata in “Renaissance De La Harpe Celtique” del 1971.
Menzione particolare per i Planxty, formazione composta tra l’altro da Andy Irvine e Christy Moore, autori nel 1973 dell’omonimo disco, forse il punto più alto di “genere” raggiunto in quegli anni (e non solo), dirompente sin dal brano d’apertura “Raggle Taggle Gypsy/Tabhair Dom Do Lãmh”; da citare ancora la collaborazione di Irvine con Paul Brady del 1974 dal titolo “Andy Irvine – Paul Brady”.
Postilla, poi, per i Fairport Convention, probabilmente i più celebri alle grandi masse (passati alla storia con “Unhalfbricking” del 1969, “Liege & Lief” del 1969 e “Full House” del 1970) dato il loro approccio “rock” e la notorietà raggiunta da Sandy Denny (ex Strawbs) anche grazie alla sua collaborazione “vocale” con i Led Zeppelin in “The Battle Of Evermore”; da ricordare che pure la precedente voce (e cofondatrice) dei Fairport Convention, Judith Aileen Dyble, vanta alcune collaborazioni speciali tra cui quella che la vede in una versione “alternativa” e “embrionale” di “I Talk to the Wind” dei King Crimson ai tempi di Giles, Giles & Fripp. Nei Fairport Convention si è parimenti affermato Richard John Thompson autore nella prima metà degli anni settanta di un’ottima carriera solista.
La ricostruzione storica potrebbe continuare e includere altri artisti e dischi, sia degli anni richiamati che dei decenni successivi, ma per l’economicità della trattazione e poiché si è voluto porre l’accento sul periodo che è stato maggiormente rappresentativo per la riscoperta del folk britannico (così forte ne fu l’impatto che brani tradizionali vennero incisi anche da gruppi su dischi non strettamente legati al folk, esempio emblematico è “John Barleycorn Must Die” dei Traffic del 1970), si torna a raccontare “dell’oggi” e di come i Lankum stiano nuovamente catalizzando l’attenzione verso la “musica celtica”.
A dire il vero, l’ultimo decennio ha visto (tra i più) anche i The Gloaming imporsi come alfieri del genere, gruppo che è entrato anche nella scuderia della Real World Records e che ha pubblicato, tra il 2014 e il 2019, tre ottimi dischi omonimi ma che a differenza dei Lankum non ha saputo nel tempo osare e porsi in modo trasversale aprendosi a un linguaggio musicale più ancestrale, viscerale, “bordone”, meno “classico”, “cameristico” e meno da “world music”; operazione invece riuscita ai Lankum.
La creatura di Ian Lynch e Daragh Lynch (a nome Lynched le primissime produzioni), dopo aver calibrato il tiro con i più che validi “Between the Earth and Sky” del 2017 (in cui spicca “What Will We Do When We Have No Money?”) e “The Livelong Day” del 2019 (ottima “Katie Cruel“), con un “insano” e mirabile equilibrio rompe gli schemi e dà alle stampe nel 2023 “False Lankum”.
Basterebbe a certificare la bontà di “False Lankum” solo il “duo” di apertura (che occupa la quasi totalità del side A) affidato agli eccezionali, sacramentalmente pagani e sperimentali 8:38 minuti di “Go Dig My Grave”, la cui tensione irrisolta sublima nella coda lancinante che porta alla definitiva “Clear Away In The Morning”, ballata vestita di contemporaneità.
E ancora la “frattura” strumentale di “Master Crowley’s” e “Netta Perseus” (inizio e fine del side B), l’intima “Newcastle”, l’opposizione nella doppia “faccia” di “The New York Trader” e la delicatezza dell’esatta “Lord Abore And Mary Flynn” (insieme a occupare quasi interamente il side C), l’evocativa “On a Monday Morning” e i tre intermezzi “Fugue”, non sono altro che il giusto viatico per la conclusiva e totalizzante “The Turn” (nelle note di copertina descritta con un lapidario “Make a Sound”) che congeda un disco al contempo “rappresentativo” del passato, proiettato nel futuro e perfettamente riuscito.
https://lankumdublin.com/
https://www.facebook.com/dublinfolkmiscreants/
https://lankum.bandcamp.com/