Arrivare nella città Catalana è sempre una grande gioia. Dall’aeroporto in autobus verso la città, il mare da una parte e le colline dall’altra, un pomeriggio sereno e ventilato.
Scendiamo a Plaza Catalunya e trasciniamo i trolley giù per la Rambla in cerca di un hotel economico. Ci sistemiamo a Plaza Real, cerchiamo di fare le cose velocemente, per arrivare prima possibile al Fòrum, dove si svolge il Primavera Sound.
Ciò che ci colpisce maggiormente è osservare l’incessante crescita del festival ad ogni edizione. 127 artisti, 6 stage, tra cui quello nato dalla recente, prestigiosa collaborazione con l’ATP, concerti correlati durante tutta la settimana all’Apolo (localone nel centro della città) e nelle stazioni della metro, set acustici allo stand MySpace, persino esibizioni per bambini nell’apposita zona allestita all’interno della struttura… se qualche anno fa accoglievamo con soddisfazione il trasferimento dal Poble Espanyol al più capiente (e suggestivo) Fòrum, non ci stupiremmo se in futuro diventasse necessario un nuovo cambio di location. Nonostante l’offerta sempre di maggior spessore dei festival in Spagna, come l’eterno FIB, il quotato Summercase e il più settoriale Sonar, assistiamo infatti a concerti stracolmi a tutte le ore del giorno, con la solita invasione di musicofili da ogni angolo del mondo (in particolare dal Regno Unito), ed anche quelli dai più additati come il possibile “flop” del festival, gli Smashing Pumpkins, che fanno il botto. Paradossale poi che il concerto forse più brutto, sciapito e inutile della tre giorni sia stato quello con il maggior numero di presenze, con gente fin sopra la collinetta di fronte al palco manco fossero i Pink Floyd.
Tutt’altra storia il resto del festival, che ha dato un’impressione positiva per la quasi totalità dei concerti. Eccone una breve summa:
Giovedì 31 maggio
Sono da poco passate le 19, abbiamo appena il tempo di entrare e di ambientarci che inizia il primo show memorabile, quello degli Herman Düne. I portabandiera del cosiddetto movimento anti-folk sembrano aver visto finalmente i frutti di anni di militanza nell’underground europeo e delle decine di dischi e CDR pubblicati, a giudicare dell’accoglienza entusiasta che ricevono dal numeroso pubblico già presente. André, un po’ buffo col suo abbigliamento da gentleman di campagna, dà lezioni di stile pezzo dopo pezzo e, nelle pause, saluta più volte la sua amica Kimya Dawson invitando il pubblico a non perdere il suo concerto (che invece, purtroppo, finirà tra i tanti che saremo costretti a sacrificare). Good for No One, con i suoi interminabili e seducenti ritmi, è la migliore colonna sonora al tramonto barcellonese che si possa desiderare, e rapisce tutti i presenti che, in religioso silenzio, accompagnano il brano muovendo su e giù la testa. L’headbanging continua e si fa più intenso subito dopo con i Melvins e la loro esecuzione di Houdini. King Buzzo, con la sua appariscente capigliatura e la sua voce assassina, ci trascina insieme all’inquietante Jared Warren al basso e ai due implacabili batteristi in un lungo viaggio nel rock più granitico dello scorso decennio.
Gli Slint, fortemente attesi per la versione integrale del loro capolavoro Spiderland, si attengono al minimo indispensabile, suonando una versione copia carbone del disco. Complice, probabilmente, anche l’elemento sorpresa, risultano più interessanti nei brani finali, tratti dall’omonimo/anonimo EP. Deludente, come già accennato prima, il concerto degli Smashing Pumpkins. Anche su classici come Zero e Tonight, Tonight non si crea l’atmosfera da grande rientro, il suono sembra moscio e, in più, massicce folate di vento spazzano letteralmente via le (note di chitarra) schitarrate di Billy Corgan (almeno qui non ha colpa); all’altezza del mixer si sente solo la batteria, il resto suona confuso, la nuova bassista sembra una modella e se lui è vestito da santone in tunica bianca, lei assomiglia ad un incrocio tra una ballerina in tutù e una sposa in minigonna. Un leader sborone e una band di turnisti e figuranti, e se aveste visto la prosopopea nel suonare le sue ultime moscerie alla chitarra acustica vi sareste stizziti anche voi perbenisti del rock’n’roll.
I White Stripes sono un mito e vanno visti bene, avviandosi in tempo, sedendosi vicino alle transenne e aspettando insieme ai fan. L’attesa è ripagata da una performance brillante, Jack White è un guitar hero ed è impossibile non avere gli occhi incollati alle sue mani per tutto il set. Lo spettacolo è divertente, ci sono quattro microfoni sul palco, di cui uno montato vicino la batteria dove il chitarrista va a cercare la puntuale complicità della compagna, si guardano negli occhi, attaccano un pezzo e ci spaccano la faccia. Il loro rock’n’roll è davvero primitivo.
Contemporaneamente, sugli altri palchi, è il turno di Fennesz & Mike Patton, troppo poco “primaverili” per coinvolgere (se ne riparlerà quando i Faith No More decideranno di riformarsi), e di Fujiya & Miyagi, che invece confermano le ottime impressioni date dal recente Transparent Things con la loro personalissima miscela di kraut rock, indie rock e disco-funk. Sullo stesso stage, subito dopo, i Justice eseguono il set elettronico forse più bello a cui abbiamo assistito. Un trionfo di pubblico osannante. La consolle schermata da un’enorme croce viola. I due francesi regalano alla loro legione un anfetaminico mix di house e rock’n’roll, ed è la luce, con tutti a cantare so c’mon, c’mon e do the dance. In bilico tra rock, french touch e techno-soul (!), bassi in distorsione e pattern ritmici destrutturati, hanno mostrato carattere e classe, nonostante sia ancora troppo forte l’ombra dei Daft Punk.
Venerdì 1 giugno
Una delle sorprese più gradite di questa edizione, come accennavamo in apertura, è la presenza allo stand MySpace (allestito come un salotto vintage) di una serie di set acustici di artisti presenti al festival, tra cui vale la pena citare Grizzly Bear e Múm. È lì che, al nostro arrivo, troviamo Paul Smith e Duncan Lloyd dei Maxïmo Park impegnati a deliziare i fan con uno show che esalta il lato più cantautorale della band. Impressioni positive anche per il concerto vero e proprio: i cinque ragazzoni inglesi hanno una bella energia e una gran voglia di suonare bene. Lo stesso vale per i Rakes. Il cantante potrà anche apparire irritante con le sue movenze spastiche e i suoi discorsi totalmente senza senso pronunciati con voce da cartone animato della Warner Bros, ma non ce la dà a bere. Il concerto è una sequenza di gioiellini pop che solo una band in gamba potrebbe comporre ed eseguire con tanto entusiasmo. Divertentissimi.
Stupefacente (in tutti i sensi…) il concerto dei Black Mountain. Cavalcate di blues acido con al seguito bordate d’organo e una sezione ritmica asimmetrica e con piglio à la Joy Division. Un soffio sulfureo di psichedelica malata. Blonde Redhead piatti e senza verve. Molto mestiere e poco coinvolgimento, da una band dal suono così vasto ci si aspettava di più. I pezzi tratti dall’ultimo 23 girano a vuoto, senza personalità. Tutt’altra cosa The Fall: evidentemente l’aria spagnola fa bene all’imprevedibile leader Mark E. Smith, qui alla sua seconda Primavera, che sembra divertirsi come non mai. Sorride, parla con il pubblico (quante altre volte l’avrà fatto? Dieci in trent’anni di carriera?), si pulisce il naso con noncuranza, fa saltare la telecamera ad un operatore un po’ troppo invadente e interferisce dispettosamente con gli strumenti degli altri musicisti, in particolare quello della sua compagna e tastierista Elena Poulou. La scaletta, da Pacifying Joint a Reformation!, passando per le cover di Hungry Freaks, Daddy e White Lightning e le monumentali Blindness e Mountain Energei, è una degna ed eccitante celebrazione del più longevo e prolifico gruppo post-punk di sempre. Il loro sound ci manda su di giri: fa ribollire il sangue e ci obbliga a ballare per tutto il tempo…eccitante!
Piacevolmente tamarri i Chromeo. Conciati uno come un membro dei Def Leppard, l’altro come un hip hopper di periferia, ci regalano tre quarti d’ora disimpegnati con il loro electrofunk tanto sguaiato quanto elegante, condito da siparietti irresistibili e da vocoder a volontà.
Sr. Chinarro, mentre accorda la chitarra poco prima di esibirsi, appare un po’ imbarazzato. Un fan, seduto sopra la transenna, praticamente a un metro e mezzo di distanza, continua a chiamarlo per nome (ANTONIO! ANTONIO!) senza poi volere nulla di preciso. Musicista molto stimato in Spagna, questo ragazzone ben sopra la trentina si è ritagliato un suo spazio tra nuove realtà come Band of Horses e Beirut, non sfigurando affatto. Concerto dalle più classiche tinte pop-rock d’autore, tra tradizione andalusa e chitarre west-coastiane. Un sound elettrico di marca indie e un nome che ricorda un famoso liquore al carciofo che ci è piaciuto molto. Da ricordare soprattutto l’atmosfera che si è creata col pubblico, numeroso e appassionato dell’ANTONIO: la voce calda porta paesaggi che solo la Spagna ti sa regalare (sangue e polvere, fiori e mare), scandisce decisa parole che tutti amano ascoltare e cantare. Gli spagnoli finalmente soli a casa loro, invasi da una simpatica massa di stranieri che vuole parlare in inglese. Ci si mettono anche gli italiani adesso, pensano, che erano gli unici coi quali ci si capiva un po’! Ascoltatelo gente, roba giusta.
Folla senza eguali per i Modest Mouse, recarsi alle prime file è un’impresa da non poco (e questo ci spingerebbe ad una critica sulla collocazione del palco ATP, non del tutto adeguata vista la caratura degli artisti che vi suonano…), ma il concerto è quello che ogni fan del gruppo ha sempre sognato. Isaac Brock si presenta con un occhio nero che a tempi alterni nasconde con una benda da pirata (conseguenza di una rissa o ha preso troppo sul serio il video di Dashboard?). Partono con Paper Thin Walls, e da lì in poi, nonostante la calca, è impossibile non saltare, anche perché il set si concentra principalmente sul repertorio più danzereccio del gruppo (The View, We’ve Got Everything, l’incalzante Satin in a Coffin)… pezzi straripanti di groove di chitarra che sembrano scritti apposta per l’euforico Johnny Marr, ben integratosi con il resto della band. La lunga e furiosa cavalcata indie-funk di Doin’ the Cockroach è il picco più alto di un live perfetto.
Sempre all’ATP è il turno dei Low: bel concerto, come al solito “sussurrato”, pieno di pathos, con scarti di volume meno evidenti che in passato ma comunque di grande impatto. Hanno superato la prova live di un disco che poteva sembrar ostico suonare dal vivo, optando per una quasi assenza di elettronica e per una totale immersione nel nucleo dei pezzi, senza girarci inutilmente intorno, mantenendo cosi sempre alta la tensione, senza mai annoiare.
A causa di problemi tecnici i Built to Spill sono costretti ad iniziare in ritardo e a suonare meno del previsto. Per buona parte del concerto Brett Netson non può avvicinarsi al microfono, per non far partire un assordante boato dalle casse (tragicomica la sua espressione impaurita). Ma, a parte questo, il concerto è da brividi per quanto è bello. Gli inconfondibili suoni di chitarra di Doug Martsch e dei suoi ultimate alternative wavers ci travolgono e ci incantano. Sulle battute finali di una Stop the Show dilatata oltremisura e simbolicamente posta in chiusura, troviamo il tempo per seguire il concerto dei Girls Against Boys. Il timore di trovarci di fronte ad un gruppo “fantasma” è forte, vista la loro lunga assenza dalle scene, ma sparisce in un attimo. I muri del suono di Scott McCloud e soci non hanno perso un grammo del loro impatto, e Disco 666 e Kill the Sexplayer ci riportano a quando GVSB era sinonimo di quanto di più cool esistesse nel mondo dell’indie rock.
Bellissima sorpresa gli Hot Chip, un concerto senza punti morti, divertente, intelligente e coinvolgente. Melodie di stampo british molto naif e continui botta e risposta ritmici e digitali, ognuno con davanti a sé tastiere e batteria elettronica, con un’unica chitarra che passava di mano in mano, quasi scottasse, come a voler significare l’imbarazzo dei nuovi gruppi nei confronti degli strumenti tipici della musica rock. Il perfetto incrocio tra Soulwax e Belle and Sebastian.
Riserviamo le ultime energie – sono appena le 6 del mattino, in fondo… – per Diplo e il suo simpatico miscuglio di hit del presente e trash del passato (giureremmo di aver sentito i Bon Jovi, ma forse è solo la stanchezza…).
Sabato 2 giugno
Concerto un po’ “timido”, causa forse l’orario, quello dei 6PM, duo gallego che mischia Notwist, Postal Service e Hood in maniera intelligente e poco derivativa. Pezzi dalle strutture complesse ma non troppo, con intriganti inserimenti di tromba e fisarmonica. Ci sono sembrati ancora acerbi, ma di belle speranze.
Shannon Wright è probabilmente la vera rivelazione di tutto il festival. Era tempo che non vedevamo un artista in solitario reggere il palco in questa maniera. La Wright mostra senza timore l’essenza stessa della propria musica, divisa tra il classicismo quasi da conservatorio dei pezzi suonati al piano e il lato sporco e polveroso dei pezzi alla chitarra. Note spezzate, riverberi e rumorismi d’atmosfera ci fanno pensare che c’è ancora un modo al giorno d’oggi di suonare blues in maniera moderna e non retrò. Il tutto accompagnato da una voce commovente nel suo saper essere allo stesso tempo disillusa, sensuale e grintosa, e da delle movenze feline (Gianluca Testani dixit) che incantano lo sguardo.
Per Jonathan Richman, che in Spagna ha trovato la sua seconda terra, il successo era scontato. Gli spagnoli vanno letteralmente pazzi per il suo humour per niente trendy e per le sue movenze ostentatamente scoordinate. Concerto quasi totalmente cantato in spagnolo, con i soliti testi surreali accompagnati giusto da una batteria senza pretese e dalla chitarra, la sua è stata una vera e propria ovazione, con gente in piedi a fine concerto ad applaudirlo con vera foga. In Italia un genio incompreso.
Durante i Long Blondes non riusciamo a staccare gli occhi dalla cantante Kate Jackson, sorridente, elegante, sensuale e, sì, anche brava, come il resto della band, d’altronde. Il gruppo di Sheffield offre un ottimo spettacolo e spara uno dopo l’altro tutti i singoli con cui ha costruito la propria fama. Schegge di Slits e Smiths ed estetica sexy/punk per un party che ha forse l’unico difetto di avvenire troppo presto.
Si continua a sorridere con gli Architecture in Helsinki e il loro colorato show. I vivaci australiani zompettano ovunque, si scambiano gli strumenti, eleggono Barcellona a loro città ideale e fanno divertire tutti con pezzi brillanti, strampalati e festaioli come It’5! e Do the Whirlwind. Avrebbero potuto andare avanti per ore senza stancarci.
Altro grande concerto è quello di Robyn Hitchcock and the Venus 3: tutto suona come dovrebbero suonare le cose, in maniera agile, coordinata, potente e melodica. Peter Buck alla chitarra e Scott McCaughey, già Minus 5, smorzano le atmosfere barrettiane tipiche di Hitchcock innestandole di chitarre scintillanti e rotondità power pop. Che si può volere di più dalla vita? Magari ascoltare un po’ di più di una mezz’ora scarsa, da lontano, di Patti Smith… ma, se mai ci fossero dubbi, la regina del rock è sempre in ottima forma. Ora però è il turno di The Good, The Bad & The Queen: ad attirarci al Primavera quest’anno è stato (anche) il ritorno Paul Simonon nello showbiz, con un disco e un progetto cucito dall’abile sarto Damon Albarn quasi apposta per lui (basso felpato), quando quest’inverno ce ne siamo accorti, avevamo già deciso che li avremo visti dal vivo d’estate da qualche parte in Europa, ed eccoci qua. Meritano l’attesa in primissima fila (quasi da fan-pischelli, insomma), schiena appoggiata alla transenna del palco Rockdelux, ripassando a mente qualche loro canzone che abbiamo voglia di cantare a squarciagola e non ci va di azzeccare solo i capoverso verso e le parole finali. Vedere l’ex bassista dei Clash è un flash! Le sue sono pose da duro di Brixton e portano a un mondo musicale diverso da quello di oggi, il basso spesso senza tracolla mantenuto come un fucile, gangsta punk, genuinità da classe operaia andata per caso in paradiso. La scaletta del concerto segue pedissequamente quella del cd, solo Northern Whale è suonata diversamente, molto più lenta dell’originale. Una bottiglia di whisky mezza vuota troneggia sul pianoforte verticale di Damon il capocomico, che scherza e ride con la band e col pubblico per poi immalinconirsi quando canta. Ha una gran voce stasera, scandisce così bene che capisco i suoi sentimenti, c’è qualcosa che quasi lo distrugge ma che non lo fermerà. Ha scritto delle canzoni bellissime, parola di Paul Simonon che partecipa ai cori con grande emozione. Anche a Simon Tong devono piacere quelle canzoni e le canta con più nonchalance, lui è molto british. La musica barcolla sui ritmi afrojazz di Tony Allen che sembra voler a tutti i costi sedare una ribollente energia interiore, così come caustici sono gli interventi del quartetto d’archi tutto al femminile; i paesaggi si susseguono, il mare del nord, il soldato in trincea, i prati verdi, sullo sfondo di una Londra fuligginosa, dipinta abilmente su un telone, che si strugge tiepidamente nella routine del buono, del cattivo e della regina; casa di tutti.
Dai Sonic Youth, viste le ultime apparizioni in Italia, ci si aspettava il solito compitino che Moore e compagni, perfette icone pop del caos organizzato, continuano a rifilare a platee osannanti. Invece stavolta hanno fatto sul serio, la loro versione live di Daydream Nation è emozionante, per niente calligrafica, una ricerca sincera del significato profondo del disco, tra rumorismi, melodie contorte e morbosità post-wave. Molto buone anche le esecuzioni dei pezzi migliori del loro repertorio recente, nel bis, durante i quali vengono affiancati dall’ex-Pavement Mark Ibold al basso, mentre Kim Gordon si dedica alla terza chitarra e ad agitare il pubblico. I Buzzcocks, da perfetti inglesi DOC, arrivano sul palco visibilmente ubriachi e su di giri. Pete Shelley barcolla, un enorme union jack troneggia sugli amplificatori. Concerto disastroso? Non scherziamo! Questo è punk, e quando c’è da suonare la storica band non fa prigionieri, con un set all-greatest hits che dà vita al pogo più sfrenato di tutto il festival.
Chi ama i Wilco li ama incondizionatamente, a buona ragione. Una macchina perfetta che incarna la nuova frontiera della tradizione americana, una nuova Band che dialoga con il pop e il soul. Dal vivo sono probabilmente tra i migliori musicisti in circolazione, un sound compatto e perfetto come nessun altro. Eppure questa volta, costa dirlo, a tratti troppo oliato, troppo perfetto. In tutti i casi, Spiders dal vivo resta un’esperienza catartica.
Il cambio improvviso di palco e di orario, a sostituzione dei defezionisti Klaxons, non impedisce il pienone all’anfiteatro del Rockdelux per i Battles. Sono le 4 passate, il soundcheck è interminabile ma quando il concerto inizia nessuno riesce a starsene seduto sugli scaloni e a non ballare, quasi venisse a mancare la gravità. Lo spettacolo degli autori dell’acclamato Mirrored sembra davvero di un altro pianeta per come riesce ad essere allo stesso tempo sperimentale e coinvolgente, elaborato e viscerale. Tra gli intrecci math di Tonto, l’astrattismo dance di Hi-Lo e i ritmi martellanti e il cantato schizoide di Atlas assistiamo ad un’epopea live impressionante, su cui potremmo versare fiumi di parole ma che va vista in prima persona per essere compresa appieno.
Il notevole DJ set di Erol Alkan, del quale riparleremo a breve, ci porta all’ennesima alba, l’ultima trascorsa al Fòrum ma non l’ultima del festival.
Domenica 3 giugno
Per chi di noi non ha già fatto i bagagli c’è ancora, infatti, il closing party che come ogni anno ha luogo al club Apolo. Quando arriviamo nel già gremito locale hanno appena iniziato a suonare i Malajube. Poco noti dalle nostre parti, sembra siano invece molto popolari nel loro Québec e tra il pubblico francofono, che ovviamente non manca tra la folla. Il loro pop ricercato che alterna ironia lo-fi a urgenza post-punk, a metà strada tra i connazionali Arcade Fire e la sensibilità europea di band come dEUS e Motorpsycho, ci tiene incollati al palco per tutta la durata del concerto. Gran bella sorpresa.
L’aria condizionata e le generose dimensioni dell’Apolo nulla possono contro la ressa spropositata e il conseguente calore che si vengono a creare per le star della serata, gli Of Montreal. “Vi siete divertiti in questi tre giorni?” ci chiede Bryan Poole, adornato con ali da angelo: “dalle vostre espressioni e da quello che ci hanno raccontato direi di sì… noi eravamo altrove, peccato. Credo proprio che ci saremmo trovati bene”. E, quasi a non voler sfigurare davanti ai grandi nomi che li hanno preceduti, sfornano un concerto eccellente. Una sequenza di contagiose melodie glam’n’roll, contornate dal make-up di Kevin Barnes e soci e dalle immagini caleidoscopiche proiettate sullo schermo. Da Rapture Rapes the Muses a She’s a Rejector, non manca nessuno dei loro pezzi più noti, e c’è anche spazio per un doveroso e esplosivo tributo ai padri, nel bis, con Suffragette City del duca bianco.
Il lungo weekend si conclude con Erol Alkan. L’atletico DJ/producer/remixer è ormai un resident a tutti gli effetti del Primavera (quest’anno è presente addirittura in doppia dose), ed il motivo è evidente: il suo set ben rispecchia la natura eclettica del festival. Erol ci fa ascoltare e ballare di tutto, ma proprio di tutto, ci ricorda i momenti migliori dei giorni scorsi mixando Battles e Justice, e ci saluta augurandoci Sweet Dreams. Augurio quanto mai adeguato, visto che ne abbiamo da recuperare, di sonno, unico (e gradito) sacrificio di un rito della primavera che non ci ha fatto mancare nient’altro.
Autore: Antonio della Volpe, Francesco Di Bella, Daniele Mancino
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