Una nuova collaborazione: quella di FreakOut Magazine con “Le assaggiatrici“, blog letterario curato da Camilla Iovino e Michela Aprea. Ogni settimana ospiteremo sulle nostre pagina “A pranzo con Babette”, la rubrica che “Le Assaggiatrici” dedicano al cinema e alle trasposizioni su schermo di classici e narrativa contemporanea. Partiamo con “Il pranzo di Babette” di Gabriel Axel, tratto dall’omonimo romanzo di Karen Blixen di Michela Aprea.
Vincitore dell’Oscar come miglior film straniero, “Il pranzo di Babette” è la trasposizione dell’omonimo racconto scritto nel 1950 da Karen Blixen (in inglese, con il titolo di “Babette’s Feast”), sotto lo pseudonimo di Isak Dinesen. In Italia il testo è stato pubblicato per la prima volta, nel 1962, da Feltrinelli, all’interno della raccolta “Capricci del destino” (Anecdotes of Destiny) per la traduzione di Paola Ojetti. Ancora oggi il racconto è disponibile all’interno della stessa collana.
Il film è sceneggiato e diretto da Gabriel Axel, regista poco noto fuori dai confini nazionali, danese come Blixen.
Con “Il pranzo di Babette” conquista gli allori, dopo una carriera non esaltante come regista televisivo in Francia e nonostante un passaggio poco entusiasmante, a Cannes, all’interno della sezione “Un certain regard”. Nel 1988 vince l’Oscar battendo Louis Malle (in concorso con “Arrivederci ragazzi”) ed Ettore Scola (in gara con “La famiglia”).
Portare sullo schermo il racconto di Blixen è stato un sogno di lunga data per Axel, reso possibile grazie al successo che la trasposizione de “La mia Africa” aveva ottenuto poco prima.
Axel mette in scena un film dalle ambientazioni cupe, con una prevalenza dei toni del grigio, come la vita di Martina (Birgitte Federspiel) e Filippa (Bodil Kjer), devotissime figlie del decano di uno sperduto paese nello Jutland, in Danimarca. È il riferimento religioso, la mortificazione del corpo e degli istinti a pervadere il film, in un racconto che è sempre castrato, sotto l’occhio vigile del pastore, sempre pronto a redarguire le proprie pecorelle, a partire dalle proprie figlie.
Condannate a rifuggire le avances e le gioie del corpo per raggiungere lo stato di grazia di un fiore sfranto. L’arrivo misterioso di una donna francese, Babette (Stéphane Audran) raccomandata da Achille Papin, famoso cantante d’opera devoto a Filippa, cambierà la propria vita dimostrando che la Grazia è figlia della Creatività e della Comunione e si serve del corpo e del piacere per manifestarsi. Una lezione, ultima, che Babette lascia alle donne che l’hanno accolta senza mai chiederle chi fosse e cosa l’avesse condotta lì.
Una donna rivoluzionaria, in grado di incantare con la sua cucina i grandi della Storia a lei contemporanea (siamo alla fine dell’Ottocento) e di riprodurre il piacere dell’amore attivando i sensi del gusto. Sui volti dei suoi commensali danesi, non troveremo l’estasi o il godimento ma il gusto libero e smaliziato della scoperta, volti infantili e simpatici, alle prese con sensazioni che immaginiamo non abbiano mai provato prima. I cibi presenti sulla tavola di Babette sono stati realmente offerti agli attori. Quello che manca nel film, che per i toni, il ritmo e le ambientazioni desolate ricorda molte altre opere realizzate tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi del ‘90 (“Lezioni di piano”), è Babette, la sua storia di comunarda, fuggita dalla Francia dopo aver assistito alla fucilazione del marito e del figlio. Manca il suo carattere rivoluzionario, di donna libera ed emancipata, in grado di provvedere alla propria sorte, certo baciata dalla Fortuna, ma capace di condividere anche quella con chi le è accanto.