Prendi i Julie’s Haircut e chiudili in sala per quattro giorni. Registra tutto ciò che passa loro per la testa. Trascorri il resto dell’anno a riascoltare e selezionare tutto: taglia qui, aggiungi là, lima lì e smussa qua. Copia e incolla, si chiama, ma “cut-up” fa più figo. Niente di particolarmente originale, sia chiaro. Tanti dischi sono nati così: “A Ghost Is Born” dei Wilco, giusto per citarne uno ancora recente, è venuto fuori in questo modo. E capolavoro è stato. Lì, però, alla base del lavoro di taglia e cucito c’erano le canzoni, un songwriting raffinato ed una band ispirata colta nel suo massimo stato di grazia. In “After Dark, My Sweet”, invece, le canzoni vere e proprie sono poche, l’ispirazione va e viene ad intermittenza e il resto è un susseguirsi di tracce strumentali all’interno delle quali il gruppo di Sassuolo si diverte a declinare il verbo del rock secondo tutte le sue sfumature più acide: dal post allo space-rock, passando per la psichedelica pura. Bello, bellissimo, ma a tratti e soltanto all’inizio. Passato l’entusiasmo del primo ascolto, restano gli sbadigli e la noia. Dove sono i Julie’s Haircut che della semplicità, della freschezza e dell’ingenuità naif delle loro canzoni avevano fatto il proprio marchio di fabbrica? Ne resta qualche traccia giusto nell’hand-clapping contagioso di “Open Wound” e nei riff trascinanti di “Afterdark”. Poi è tutto un esercizio di stile, svolto con professionalità e senza sbavature, come i temi del primo della classe: pieni di citazioni, perfetti nella forma ma poveri nella sostanza. Divertente, ma solo per loro. Si arriva alla fine col fiatone, ma il culetto lo si è smosso soltanto a tratti.
Autore: Enzo Zappia