Solido fenomeno hardcore e post punk contemporaneo, epigoni del recente rilancio del loro genere musicale a livello globale, il quintetto di Bristol ancora una volta mette in scena un malessere esistenziale senza fondo, con uno stile feroce, inquietante e doloroso da bestia ferita ed una reazione a denti serrati, ma che in questo episodio porta in dote anche una vena poetica esistenziale più accentuata, intergenerazionale, ed una scrittura musicale hc-punk al solito acida ed asciutta, tutta chitarristica, con una produzione accurata ma essenziale che sfocia in una sorprendente ricchezza di sfumature, non particolarmente originale ma relativamente varia, con passaggi anche new wave (‘When the Lights Come On‘), noise (‘Car Crash‘), screamo (‘Stockholm Syndrome‘), psych (‘Kelechi/Progress’) e doo-wop (‘The Beachland Ballroom‘).
Al solito straordinario e trascinante Joe Talbot alla voce, ormai icona nichilista rock di riferimento che mostra grande completezza, ed in questo disco vira talvolta persino verso un’imprevedibile timbro black music.
Gli Idles, assieme a Black Country New Road, Fontaines DC, Metz ed Iceage stanno riportando il post punk e l’hardcore al centro dell’alternative, ed offrendo questa musica non soltanto una rappresentazione molto calzante del malessere esistenziale che sfocia nella nevrosi, ma anche una spinta a reagire e non chinare il capo mai, ecco che una nuova generazione magari stufa dell’autocommiserazione trap vi si identifica sempre più.
Non si può obiettivamente parlare di originalità, per generi musicali così collaudati, suonati del resto in questo caso con la canonica formazione 2 chitarre voce, basso, batteria, e tuttavia nel caso degli Idles abbiamo a che fare con una band talmente solida, esperta, capace di articolare la musica e per quanto possibile non schematica, che questo processo diventa un importante valore aggiunto che compensa ampiamente.
Crawler tra i più importanti dischi dell’anno, senza dubbio alcuno.
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autore: Fausto Turi