Il Teatro degli Orrori – in formazione storica con Gionata Mirai, Francesco Valente, Giulio Ragno Favero e Pierpaolo Capovilla – è tornato sui palchi con il tour “Mai dire mai”: un ritorno atteso e celebrato da un pubblico che non li ha mai dimenticati ribadendo il ruolo di band seminale del rock italiano, nata nel 2005 dalle ceneri degli One Dimensional Man dai quali ha ripreso il suono e l’approccio. Il gruppo, grazie al frontman, ha costruito la sua fama su testi colti e graffianti, musiche viscerali e coscienza politica.
Prima di chiudere questo capitolo del tour – che poi potrebbe portare a un clamoroso nuovo album – ci sono quattro date finali; stasera a Roma con doppia data al Monk poi è la volta di Napoli presso il Duel e infine a Putignano (Bari) all’Ex Macello. Abbiamo incontrato il cantante, attore e poeta Pierpaolo Capovilla che si/ci racconta. Capovilla è un artista che, anche da solista, ha sempre considerato la scena come un palcoscenico di idee, parole e suoni, fino ad arrivare a esprimersi anche attraverso il cinema. La sua cifra è rimasta la stessa: non perdere mai la tensione narrativa.
Cosa ha reso questo momento quello giusto per tornare come band?
Secondo te? Diciamolo! Abbiamo avuto offerte economiche importanti e irrinunciabili e dobbiamo essere onesti con noi stessi nel dirlo: è stato il vile denaro a spingerci a suonare di nuovo insieme. Per me è stata una decisione difficile, perché mi ero promesso di non avere più nulla a che fare con questo gruppo! E invece è successo qualcosa di bellissimo: ci siamo ritrovati, io con un’ansia interiore pazzesca, ed è andata come se nulla fosse accaduto tra di noi. Evidentemente in questi dieci anni siamo cresciuti, abbiamo saputo mettere da parte disaccordi, torti reciproci e assurdità, rimettendoci a suonare. Ed è stato magnifico, soprattutto perché abbiamo ritrovato un pubblico numeroso, emozionato, persino giovanissimo, che cantava a memoria le nostre canzoni spesso con gli occhi lucidi.
Un pubblico nuovo? Giovane?
Sì! E, oltre a darmi speranza, mi ha fatto pensare che qualcosa di buono ho seminato negli anni passati. Forse siamo serviti a qualcosa, e perché non servire ancora? Potrebbe essere un vero rinascimento della band. Vederli cantare a memoria i nostri brani ci dà una voglia incredibile di continuare: è sorprendentemente bello. Io ormai sono un boomer che va per i sessanta, e quando oggi canto “È colpa mia” provo un’emozione ancora più forte. Forse perché non ho lottato abbastanza, non ho dato tutto quello che potevo, non mi sono preso cura – come dice la canzone rivolgendosi a un figlio – delle speranze dei più giovani. Vedere i ragazzi sotto palco emozionarsi è un’esperienza impareggiabile.
Questa reunion live potrebbe essere il preludio a nuovo materiale inedito o è un punto di arrivo?
Vedremo, con affetto e amicizia, cosa vorrà riservarci il futuro. Intanto ci godiamo questi ultimi concerti, che ci inorgogliscono.
E la vostra attitudine artistica continuerà a essere “radicale e massimalista”?
Non potrebbe essere altrimenti!
In un panorama musicale italiano spesso omologato, dove mancano le chitarre e i suoni distorti per esprimere rabbia e sentimenti contrastanti?
Non noi! Non per noi!! Non siamo omologati e non lo saremo mai.
Oltre a una “resistenza” politica c’è anche quella musicale?
Secondo me sono la stessa cosa. Questo dibattito, che mette la musica in contrapposizione a un presunto non-ruolo politico, lo trovo sterile: la musica è politica! E la canzone popolare lo è sempre stata, il rock ancora di più. La forza che la musica ci dà nel combattere è già una posizione politica. Se ti canto “È colpa mia” o “A sangue freddo”, non è politica? Certo che lo è, inevitabilmente. La musica, come lo sport, è politica, soprattutto nelle circostanze che stiamo vivendo oggi.
La tua poetica come atto politico.
E che cos’è la poesia, se non politica? Foucault diceva che la poesia è l’ultima manifestazione della parresìa socratica: il coraggio di dire la verità in modo diretto, senza filtri, di fronte al tiranno; costi quel che costi. Quindi, se la canzone ambisce a farsi poesia, è ancora più politica. Guardando al nostro passato, anche recente, vediamo che le canzoni ci hanno insegnato a comprendere chi siamo come società, come comunità umana. La canzone dà speranza, come diceva Eugenio Finardi in “Musica ribelle”: “mollare le menate e mettersi a lottare”.
I testi delle tue canzoni sono sempre stati una colonna portante di tutti i tuoi album…
Eh sì, è l’unica cosa che so fare!!! Non sono un musicista.
La rabbia che il mondo ci provoca, la “userai”, se lo farai, nei nuovi testi? Dopo tutti questi anni, da dove attingi per narrare?
Premesso che scrivo sempre, sia narrativa che canzoni, ti dico che i miei testi sono purissime autobiografie. Non potrebbe essere altrimenti: riflettono quello che vivo e vedo, non sono mica un eremita! A Gaza c’è un conflitto unilaterale, un massacro di civili inermi che, di fatto, è anche la nostra guerra. Si usano le nostre tecnologie, le cosiddette Disruptive Technology, come l’intelligenza artificiale e nuove armi in cui l’Italia è specializzata come pochi altri. ENI, società a partecipazione statale, ha già avviato i protocolli per impadronirsi delle trivellazioni al largo di Gaza, dove pare ci sia una riserva straordinaria di gas naturale. E che dire di Leonardo, che offre servizi “dual use”, ovvero civili e militari? Noi siamo partecipi di questa strage e lo denunciano anche i nostri giovani con le recenti manifestazioni di massa che, purtroppo, sfociano spesso in scontri violenti. Ecco da dove viene la rabbia e non potrebbe essere altrimenti. E bisogna dire “non a nome mio!” e pretendere che si fermi subito. La comunità intellettuale, di cui mi sento parte, ha la responsabilità di partecipare a una rivolta contro l’ingiustizia e l’abisso morale a cui stiamo assistendo. Non ci sono terze vie, non possiamo farci sconti. Dobbiamo agire tutti, e subito, senza giustificazioni. Basta conformismo che non porta da nessuna parte, come diceva Pasolini. L’“uomo qualunque” con il suo Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, come ricordava Umberto Eco.

Veniamo ad argomenti meno rabbiosi… puoi indicarmi una band italiana che in questi anni ti ha colpito e che senti affine alla tua visione artistica?
Vado particolarmente orgoglioso della collaborazione avviata con i pugliesi Violent Scenes. Un nome molto cinematografico. E non posso dirti di più.
Adesso arriva la coda del tour “Mai dire mai”, con doppia data a Roma e poi Putignano (Bari), ma prima Napoli, con la quale hai un rapporto particolare, a quanto pare.
A Napoli ho registrato il nuovo album dei Cattivi Maestri. E Napoli è Napoli, c’è poco da fare. Altro che Xanax, come disse un ex sindaco durante una conferenza sui beni comuni. Questa città ti mette di buon umore per la sua vivacità, è un antidepressivo naturale.
E musicalmente?
Ma che domanda è? Purtroppo non seguo nessuna band attuale. Ovviamente penso a Pino Daniele, al suo blues, alla sua capacità chitarristica e alla sua forma poetica che raccontava degli ultimi e delle difficoltà della vita. Ha ritratto la società napoletana come nessuno: le sue canzoni sono diapositive che raccontano la povera gente. Un brano come “Cammina Cammina” rappresenta perfettamente la solitudine dei nostri anziani. Pino Daniele è stato un grande intellettuale della musica italiana, forse il più grande.
Nel tuo piccolo non scherzi. Recentemente ti abbiamo visto anche come attore nel film Le città di pianura. Raccontaci dell’esperienza sul set.
È stata un’esperienza avvincente, formativa e, in qualche misura, perfino terapeutica. Sono molto felice di aver dato un’occhiata, dall’interno, al cinema. Carmelo Bene diceva che “il cinema è la discarica dell’arte”; ebbene, adesso so che Bene si sbagliava. Le città di pianura è un road movie gentile, dolce-amaro, niente più di una commedia, ma che è piaciuta molto al Festival di Cannes. Addirittura ho conosciuto critici americani che ne parlavano, con mia sorpresa, come il miglior film del festival. Sono felice perché con il regista Francesco Sossai, con la troupe e con tutti gli altri, si è creato un bellissimo clima di cooperazione, mai di competizione. Non credevo potesse esistere ancora una cosa simile in qualsiasi ambito lavorativo. E così mi piacerebbe molto continuare a fare cinema.
https://www.ilteatrodegliorrori.it/
https://www.instagram.com/il_teatro_degli_orrori/
https://www.facebook.com/ilTeatrodegliOrrori
foto di Smuele Faulisi

































