Le melodie sgranate dei Mogwai di “Rock action”, la narratività strumentale dei Giardini di Mirò e il cantato/recitato evocativo dei Massimo Volume sono i riferimenti che probabilmente verranno chiamati in causa da chiunque si troverà a recensire questo lavoro de Il rumore del fiore di carta. Ma sarebbe davvero un peccato fermarsi qui, perché al di là di assonanze e consonanze, questo quintetto molisano, pur essendo all’esordio autoprodotto sulla lunga distanza, evidenzia già ottima personalità e merita grande considerazione in virtù di eccellenti capacità compositive.
Sillabe che lasciano impronte su tocchi incantevoli di tastiera, nastri ritagliati e mandati in loop, paesaggi rarefatti messi a fuoco da accordi circolari di chitarra, note di tromba ad illuminare notturni metropolitani e il caldo respiro di basso/batteria in dieci brani che uniscono concretezza d’intenti ed afflato poetico, organicità sonora e visionarietà lirica…
Difficile fare una scelta tra i molti momenti emozionanti: i palpiti improvvisi che vanno a scuotere il pigro incedere di “Animali che nuotano”, il racconto surreale trasportato dalle onde psichedeliche di “Attesa per la finale di subbuteo”, la malinconia novembrina di un “Bicchiere di neve”, le atmosfere jazz-noir che in “Di turno a Berlino” rimandano al Miles Davis di “Ascenseur pour l’échafaud”, le parole smarrite tra gli echi percussivi di “Ultimo tango”, il taglio cinematografico di “K19”…
E s’intravedono persino ulteriori margini di miglioramento (in futuro io insisterei ancor di più sull’utilizzo della tromba…) per una band che non sfigurerebbe affatto nel catalogo ufficiale di qualche lungimirante indie-label.
Autore: Guido Gambacorta