titolo: Working on A Dream
etichetta: Columbia records
Prodotto da Brendan O’ Brien e Bruce Springsteen
L’ingresso nel nuovo millennio per Bruce Springsteen significava due cose: superare la soglia dei 50 anni e festeggiare i trent’anni di carriera musicale, sin dagli esordi nei pub di Freehold. Ce ne era abbastanza, per qualsiasi leggenda vivente del rock, per chiudere in bellezza, e infatti la pubblicazione nel ’99 di Tracks e il ritorno ai live con la E-Street Band per il reunion tour dello stesso anno sembravano proprio dare il segnale della festa di chiusura.
Ma poi c’è stato l’11 settembre, e l’ormai famoso passante che pochi giorni dopo vedendo il Boss per strada non gli fece festa o chiese autografi ma gli disse: “Bruce, abbiamo bisogno di te adesso”.
E forse questo ha dato la carica a Springsteen per un decennio fra i suoi più produttivi: nello spazio di sette anni il Boss ha pubblicato ben 5 album nuovi, più due live. E, quel che più importa, questi album, a cominciare proprio da The Rising (che si potrebbe tradurre con un po’ di libertà “La rinascita”) possono essere annoverati tra i capolavori della sua carriera.
Working on A Dream chiude questa serie, e chiude un decennio davvero incredibile per questo artista, che continua ad affollare stadi interi d’estate e suonare per più di tre ore consecutivamente mentre persone più giovani di lui svengono per il caldo dalle tribune. Il tutto quando proprio nel 2009 compirà 60 anni.
E come recensire l’ennesimo lavoro di una leggenda vivente del rock, preso in una fase di autentica furia produttiva? Magari cominciando a dire che Working on A Dream non è l’album di-o-per Obama: chi conosce il Boss sa che una semplificazione di questo tipo è impossibile, esattamente come The Rising non è l’album dell’11 settembre (o almeno non soltanto) e Magic non è (solo) la resa dei conti con l’America di Bush. Certo, lì c’erano Into the Fire dedicata ai pompieri delle Twin Towers, c’era You’re Missing, My city of Ruins, come in Magic c’erano Devil’s Arcade, Last to Die e Magic appunto a parlare ancora di Iraq e Bush, e qui c’è la title track, e ancora This Life o Surprise Surprise, che denotano la speranza e il vento di una nuova era che arriva.
Ma all’ascolto emerge forse di più che l’album è una sorta di resoconto di se stesso: nei suoi 13 pezzi, Bruce Springsteen pesca molto dalla sua stessa musica: può permetterselo, perché è il Boss, perché è lui la tradizione del rock americano ormai, perché è una leggenda vivente, anche se la sua umiltà e il suo impegno sono quelli di un esordiente.
Outlaw Pete, per esempio, la bellissima ballata veloce d’esordio, sembra uscita dalle Pete Seeger Sessions: è una sad song epica, senza tempo, lunga ben otto minuti, il migliore intro possibile al nuovo album. My lucky day invece connette il Boss di oggi a quello di album come Lucky Town o Human touch, troppo spesso sottovalutati, mentre Working on a Dream ricorda il sound degli ultimi album.
Con i successivi Queen of the Supermarket (godetevi il finale a tempo del registratore di cassa), What love can Do e This Life, l’album prende la sua definitiva connotazione: non c’è la sperimentazione coraggiosa e il sound così nuovo di The Rising, non c’è la grinta e la brillantezza di certi pezzi di Magic, c’è però tanta più tradizione e legame col passato: la parte centrale dell’album, dopo la notevole semi-sperimentale Good Eye con la voce distorta, con Tomorrow never Knows, Life itself rimanda ai pezzi meno famosi di The River, mentre la splendida ballata acustica The Last carnival richiama il Bruce Springsteen folk-singer di Devils and Dust, Nebraska o The Ghost of Tom Joad.
E c’è ancora spazio per The Wrestler, e anche questa è una canzone che fa i conti col passato: è la prima volta infatti che il Boss, non alieno a colonne sonore per film (oltre all’oscar Streets of Philadelphia, da ricordare almeno Lift me Up e Dead Man Walking) ne inserisce una in un suo LP di inediti. E sembra di sentire l’epica dell’Hurricane dylaniano, mentre è uno Springsteen classico che dedica una delle sue tante ispirazioni alla dignità dei poveri e degli sconfitti.
I testi sono in tono minore, comunque, dove grande spazio lo hanno le canzoni a sfondo personale, tutte connotate da gioia e ottimismo: e probabilmente, più che festeggiare la vittoria di Obama, il Boss si è solo goduto, attraverso la pubblicazione di questo album, le gioie di una ritrovata serenità familiare, in un contesto globale che evidentemente autorizza lui e non soltanto lui a una maggiore speranza.
Ciò fa sì che l’album sia meno epico di tanti altri a cui il Boss e la fedele E-Street band ci hanno abituato, e anche che qualche pezzo rimane incolore. Del resto l’album è stato scritto fra pause del tour e degli impegni a sostegno della campagna di Obama, e quindi certo non ha potuto godere della classica pausa di riflessione che tanto fa bene ad artisti affermati (e forse questa volta il Boss ha esagerato nella sua frenesia). Ma di certo lo stile e l’impegno restano sempre gli stessi (a differenza di altri grandissimi, che negli ultimi tempi hanno dato vita a discreti flop, come Sting o gli U2, tanto per citare musicisti vicini personalmente e professionalmente), e già si sente l’eco travolgente di alcuni pezzi quando saranno trasformati, come al solito, nelle versioni dal vivo. Bisogna perciò ascoltare, e prepararsi all’ennesimo terremoto adrenalinico che quest’anno toccherà l’Italia per fortuna in ben tre date, a Torino, Roma, Udine, rispettivamente il 19, 21 e 23 luglio. E sarà di sicuro il solito travolgente non-stop-rock da rischio infarto. Per il pubblico, naturalmente.
Tracklist:
1. Outlaw Pete – 8:00
2. My Lucky Day – 4:01
3. Working on a Dream – 3:30
4. Queen of the Supermarket – 4:40
5. What Love Can Do – 2:57
6. This Life – 4:30
7. Good Eye – 3:01
8. Tomorrow Never Knows – 2:14
9. Life Itself – 4:00
10. Kingdom of Days – 4:02
11. Surprise, Surprise – 3:24
12. The Last Carnival – 3:11
13. The Wrestler – 3:50
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Autore: Francesco Postiglione
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