Esce il nuovo disco solista di David Pajo intitolato ‘1968’, e Freakout vuol porgere qualche domanda ad uno dei chitarristi più ammirati degli ultimi 20 anni, che ha militato nelle file di Slint, Tortoise, Zwan For Carnation e realizzato progetti solisti come Papa M e Aeral M. Rimanendo sempre indipendente e slegato da troppi vincoli artistici Pajo si confida e lascia intendere – ma resta sibillino e forse (!) ci prende in giro – di una possibile nuova pubblicazione discografica degli Slint per l’anno prossimo.
Con ‘Pajo’ e ‘1968’ – i tuoi recenti dischi solisti – hai deciso, dopo molti anni d’attività, di uscire allo scoperto ed impegnare direttamente il tuo nome sulla copertina di un progetto musicale; come mai soltanto ora?
Ho scelto di presentarmi alla gente con il mio solo cognome – Pajo – per due motivi, sostanzialmente: 1) è un nome facile da ricordare, 2) è una parola di sole quattro lettere. In effetti c’ho impiegato un po’ a realizzarne la convenienza…
Com’è finito il precedente progetto chiamato Papa M ? mi sembra che fosse anch’esso un percorso solista, vero?
Si, Papa M era anch’esso un progetto solista, la sigla con cui mi presentavo in passato… Il processo artistico è lo stesso, ma il risultato finale comunque molto differente. Chi segue la mia musica me lo fa notare spesso.
Nel nuovo album ‘1968’ hai ridotto all’osso il numero dei tuoi collaboratori, in pratica hai fatto tutto in solitudine. Lo trovo un po’ strano, per un chitarrista che ha suonato in così tanti gruppi rock’n’roll, e collabora sui dischi di tanti artisti famosi.
Chi mi conosce e mi sta intorno ha osservato la mia mutazione recente: lentamente mi sono alienato dal resto del mondo, così da perdere la mia mente nel conforto di un’accogliente prigione interiore.
E per i concerti come ti stai regolando? ti stai esibendo da solo, nelle nuove date promozionali? Stai suonando negli USA, in questo periodo?
Si, attualmente giro l’America per suonare – solo soletto sul palco – le nuove canzoni di ‘1968’. Ma non mi esibisco molto spesso: proprio per assecondare questa esigenza di solitudine, ho scelto deliberatamente di passare buona parte del mio tempo a casa con me stesso o nello studio d’incisione. Meno tempo in giro per concerti.
In Italia non è facile trovare le poesie del poeta persiano Hafiz – al cui lavoro hai confessato di esserti ispirato per i testi di ‘1968’ – e non credo che qualcuno le abbia mai tradotte in italiano. Perchè non ci racconti qualcosa del fascino che la poesia di Hafiz ha esercitato su di te?
E’ un peccato se davvero non ci sono buone traduzioni in italiano dell’opera di questo bel poeta. Molti dei suoi sonetti – tra l’altro musicabilissimi – erano improvvisazioni sul vino, sulla musica e su Dio. Hafiz parlava a e di Dio come fosse un suo vecchio amico, o un nemico contro cui inveire, e cantava della grande gioia che ti da l’ubriacarti. La scelta delle parole che faceva, poi, era tremendamente moderna sin dalle sfumature. Il suo punto di vista sul mondo e sulla vita era articolato, sbalorditivo e in grado di elevare lo spirito.
Una volta Bob Dylan dichiarò in un’intervista che non c’è niente di rassicurante nella musica folk americana, perchè essa parla soprattutto delle peggiori tragedie umane. Ciò sembra vero anche per le tue canzoni, che narrano di serial killers, drammi, fatalità, e di un faccia a faccia con il demonio (nella splendida ‘Who’s that Knocking’).
Si, è esattamente così. Le folk songs sono tanto violente quanto belle. Trattano temi oscuri ma sono eloquenti per loro natura, dal momento che raccontano la vita di donne e uomini. Ciò che io volevo, era provare a catturare lo spirito delle folk song, senza però plagiare il loro suono tradizionale.
Con ‘1968’, è chiaro che l’elettronica, ormai, è una delle risorse della tua musica. E in questi giorni sto ascoltando il nuovo box dei Tortoise (su cui c’è qualche tuo cameo): molto elettronico anch’esso. Il synth ha davvero magnetizzato l’attenzione di buona parte dei ‘prime movers’ del post-rock…
Ma io usavo l’elettronica ancor di più alla fine degli anni 90, che non adesso. E comunque si: il synth ha destato l’attenzione di noi tutti, perchè può essere davvero uno strumento ‘freaky’.
Qualche mese fa c’è stata un’occasionale reunion live degli Slint. Ho trovato una tua dichiarazione in un blog, in proposito: “Gli Slint non sono una band unilaterale, tutte le nostre idee si fondevano in uno. Così scrivevamo le canzoni: differenti punti di vista che si fondono per piacere a tutti”. Ti riferivi solo alle vecchie composizioni, o avete inciso qualcosa di nuovo?
Mi riferivo ad entrambe: alle nostre vecchie e nuove collaborazioni…
Ehm… nel senso che gli Slint hanno inciso cose nuove? E qual’è il senso, per gli eventuali Slint del 2006?
Gli SLINT 2006 non esistono, ma chissà cosa porterà il 2007?Autore: Fausto Turi
www.davidpajo.com – www.papa-m.com