La prima nota è una lente in 3-D per suggestioni da abbinare all’ascolto, attraverso i meandri sonori e visuali di un progetto cervellotico, asfittico e claustrofobico: cinque anni dopo “Lateralus”, quest’ulteriore pezzo a nome “10.000 days” completa un trittico di grande suggestione, pregno di varchi, accessi e porte. Le connessioni sono disseminate in un oscuro dedalo, proteso verso una rete di anfratti percorsi da antichi respiri tribali, tra echi di tamburi lontani e mantra percussivi che tolgono il fiato. La prospettiva tridimensionale richiamata dai disegni di Alex Gray in copertina (da guardare con gli appositi occhiali!), si diceva, è la prima nota a margine del nuovo lavoro dei Tool, ma l’artwork-gadget segue l’idea di una musica complessa, strutturata, intesa come strada, alveo, contesto da cui farsi compenetrare, come un liquido dove immergersi poco per volta.
Il progetto prosegue con decisione lungo le rarefatte code della forma canzone, resti simili all’appendice di un rettile, che seppur mozzata ancora scuote e vibra le sue estremità nervose. L’attacco è un subitaneo approdo, con le ampie bordate elettriche a delineare un nucleo disturbante, solido e soprattutto aperto: il crescendo di “Vicarious” raggiunge il climax e prosegue come un animale in corsa, per poi delineare il passo imponente di “Jambi”, una mandria indistinta lanciata nell’oscurità, con una cadenza avvolgente, spettacolare, costruita su inneschi micidiali e ossessivi di basso e chitarra: il risultato è impressionante.
Fermi i punti salienti del suono Tool, le canzoni trascinano l’ascolto in un magma di pulsazioni e fili elettrici dal diametro ampio: non c’è spazio per distrarsi, nel buco d’un impervio tunnel dell’orrore. Gli angoli e le direttrici s’inabissano tra fine e principio, le metastasi vischiose avvinghiano senza scampo verso una distanza impossibile da scorgere: “Wings for Marie (pt 1)” lascia sospese le atmosferiche fasi di avvicinamento, destinate a colpire alla gola le pareti inebetite del silenzio. Pochi colori, tutti virati all’oscuro, con il nero dominatore incontrastato che quasi abbaglia, mentre ampie sfere baritonali ed ancestrali caratterizzano le esoteriche performances vocali di James Maynard Keynaan.
Passeggiare non è lecito nell’antro: il suono non accompagna né carezza, ma scuote, s’insinua sottile solo per il tempo di respirare dall’interno, sulla bocca dello stomaco, rimasto inevitabilmente fuori dalla prevista onda: sussulti non convenzionali, ingigantiti, che spiazzano. Il risultato ridisegna, seppur con ampie previsioni anticipate fin dai tempi di “Ænima”, l’idea stessa del metal.
Aleggia un’atmosfera psichedelica, unta di scuro slancio progressive, come dei Pink Floyd postmoderni sprofondati da qualche parte tra l’approccio potente dei Nine inch nails e l’umido infetto di qualche madido stige; questo però non è l’inferno, siamo in un incubo perfetto, luna park architettato con passione e cura dove le apocalissi hanno un assurdo groviglio temporale, sorta di timer interno, dove tutto è lugubre e mistico come da copione.
La botta allo stomaco, però, quella è vera, come le colate sonore che si assemblano in un edificio immaginifico di rara compattezza, pieno di passaggi e strettoie, riti e sortilegi esasperati nell’ottica di un metal profondo e labirintico, al limite con certo rock alto da sentire in stati d’attenzione estrema e da guardare a occhi chiusi.
Ovviamente, è d’obbligo astenersi per i profeti dell’ascolto origliato: sono presenti forti rischi di macchie di suono, tracce di musica densa e livida difficili da controllare .
Autore: Alfonso Tramontano Guerritore