Col passare degli anni il Pomigliano Jazz si scrolla di dosso tutti i luoghi comuni legati all’iconografia tipica dei jazz festival. Di volta in volta, infatti, il festival si caratterizza sempre di più per una serie di scelte artistiche tese a connotare una peculiare attenzione a certe derive del genere, quelle maggiormente vitali oltre che decisamente meno frequenti da incrociare in festival dalla stessa popolarità e portata di pubblico. Questa è la forza del Pomigliano Jazz: riuscire a sottoporre scelte musicali belle e ricercate ad un pubblico vasto ed eterogeneo, in cui agli intenditori del Jazz venuti da tutta la regione si affiancano altri pubblici e semplici curiosi.
Il festival si è svolto sulla durata di quattro giorni, ognuno dei quali caratterizzati da diversi momenti musicali.
Giovedì 10 Luglio l’apertura è affidata all’affascinante incontro musicale tra la vocalist Maria Pia De Vito ed il pianista-compositore inglese Huw Warren. Una vocalist fortemente espressiva insieme ad un compositore dal pianismo enigmatico dall’imprinting minimal al crocevia tra jazz, canzone, contemporanea e sperimentazione. Il clou della serata però è quello dell’esibizione della mitica I.C.P. Orchestra. Collettivo olandese fondata nel 1967 dal pianista e compositore Misha Mengelberg, l’istant Composers Tool è una realtà ibrida e multiforme in grado di unire composizioni di jazz tradizionale a nenie da sala da ballo fondate su un solidissimo quintetto di fiati, riuscendo a fondere il tutto con folli dosi di destrutturazione impro contemporanea. Il cuore di questo delirio sonoro è il funambolico Han Bennink, già batterista dei Spring Hill Jack, straordinaria band di jazz al nastro magnetico. A Pomigliano l’orchestra si concede in una lunga session fresca ed inventiva in cui non manca una certa estetizzazione delle tecniche virtuosistiche. Per concludere la serata invece c’è il gustoso latin jazz del quartetto di Javier Girotto, vecchia conoscenza del festival.
Molto meno sperimentale la serata del venerdì, dedicata e due grandi canoni del jazz: l’Africa e la musica di Thelonius Monk. Ad omaggiare quest’ultimo è il quartetto del pianista Enrico Pierannunzi, che da una lettura accorata e rispettosa dei classici del maestro. Rappresentanti della madre Africa sono stati invece il mitico trio di Randy Waston, l’African Rhytms. Il progetto dell’ottantaduenne pianista afro americano è uno studio sui legami tra la cultura americana ed il continente africano, nel solco della tradizione di capisaldi quali Duke Ellington e lo stesso Monk. Un’esibizione classica, ma di grande impatto emotivo e di autentico amore.
Sabato vi è probabilmente l’evento più atteso del festival, per la grande portata innovativa del progetto ed il lustro dei personaggi che ne sono protagonisti. Il progetto il questione è Italian Doc Remix, dal titolo dell’omonimo album uscito di recente per Itinera (etichetta embedded del Pomigliano jazz), ed investe un manipolo di musicisti dai molti attraversamenti e di grandissimo spessore musicale, da Marco Cappelli (Ensemble Dissonanzen) chitarrista multiforme e titolare del progetto, a Jim Pugliese alla batteria, a Dj Logic ai piatti, all’ospite più atteso, Marc Ribot. Il progetto è un mosaico post-moderno basato sulla rilettura di ritmi e melodie tradizionali del meridione, spesso viste e sentite con gli occhi degli immigrati italiani a New York, con un ottica fortunatamente molto lontana dal folk. Il live di Pomigliano è la prima live del progetto, che per l’occasione ha visto la partecipazione di Marcello Colasurdo in un cammeo vocale), e vista la complessità delle strutture compositive, l’ascolto risulta talvolta ostico, talvolta non del tutto a fuoco, specialmente nell’interazione tra elettronica e strumentale.
Segue l’orchestra di Miles Evans, figlio del grande Gil, impegnato in un progetto filologico di esecuzione delle meravigliose partiture del padre. L’orchestra da vita, come da copione, ad una performance revival impeccabile e leggermente asettica, solo contraddistinta da incomprensibili cadute fusion, in particolar modo chitarristiche.
La serata si conclude con un episodio di grande musica, la Nublu Orchestra diretta da Butch Morris, nella performance Conduction 179. Morris ha infatti messo a punto negli anni un metodo di direzione d’orchestra, denominato, appunto “Conduction”, fortemente interattivo, in base al quale lo stesso pattern melodico viene modulato in altezza, timbro ed intensità a seconda delle istruzioni gestuali del direttore d’orchestra. Il risultato è un prodotto raffinatissimo, a cavallo tra Sun Ra e Supersilent. Tuttavia la seconda parte del set viene sporcata dal reading banale e pretenzioso di Chantal Ughi, la cui estemporaneità davvero malamente si coniuga con tanta classe.
Infine, il giorno conclusivo del festival è dedicato tutto all’Orchestra Napoletana di Jazz, che per l’occasione può vantare tre grandi voci, intente a cimentarsi con propri brani reinventati in chiave jazz: Maria Pia De Vito, Meg e Raiz, quest’ultimo in particolare stupisce per l’incisività delle timbriche anche in un contesto così diverso dal proprio di appartenenza. Da brivido a tal proposito l’omaggio al maestro Sergio Bruni: il capolavoro “Carmela” interpretato dalla voce vibrante e pastosa.
L’orchestra Napoletana di Jazz è composta da musicisti di grande spessore quali tra gli altri Marco Zurzolo, Pietro Condorelli, Aldo Vigorito ed è diretta da un maestro sapiente quale Mario Raja. Tutto questo emerge chiaramente dalla delicatezza con cui l’ensemble affronta la rilettura del repertorio napoletano, da Viviani, a di Giacomo, al Pino Daniele di “Lazzari Felici”.
L’ultimo momento musicale è affidato al quintetto capitanato da Flavio Dapidan, giovane jazzista di Pomigliano d’Arco, già pensando a quello che sarà.
Autore: Pasquale Napolitano
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