“No turisti, la via non è libera, no turisti, non ci sono siti da visitare”: lo slogan, ripetuto in maniera martellante, nella title track dell’ultimo disco dei Prodigy, targato questa volta BMG (dopo tanti anni con la Cooking Vynil) è di quelli aggressivi che fanno parte del repertorio della band. Ma non è una rivolta contro gli immigrati (sarebbe troppo alla moda per loro). “Per noi, No Tourists parla della fuga, e della voglia e della necessità di sbagliare strada. Non siate turisti, è molto più entusiasmante essere beccati sulla strada sbagliata”.
Aggressivo e cattivo è anche l’attacco della prima traccia, Need Some1, che è anche il primo singolo. Tutto lascerebbe ben sperare ma viene fuori presto che la cattiveria non è quella di prima. I suoni sono anche molto curati, forse addirittura più evoluti e complessi di quelli di The Fat of the Land, ma dopo il primo minuto si sente che la verve di allora è un po’ persa. Sarà la voce femminile che non ti aspetti (campionamento di Loleatta Holloway, che tutti ricordano in Ride On Time dei Black Box), sarà la voce accelerata (troppo) di Keith Flint in Light Up the Sky, ma c’è subito qualcosa che non riconosci nei Prodigy attuali.
Eppure, di Need Some1 Liam Howlett scrive così: “Volevo scrivere qualcosa che avesse un downtempo fighissimo, ma che allo stesso tempo suonasse pericoloso. Il video ha un taglio violento, uno stile incredibile, ed è un qualcosa che noi stessi non avevamo mai visto prima. Secondo noi, un video deve essere girato soltanto se ha un’idea originale, se è entusiasmante e, fidatevi, questo lo è”.
D’accordo, ma un video non fa una canzone, e comunque in termini di violenza visiva il video dell’indimenticabile Breathe fa storia ed è ancora insuperato. Dice ancora Howlett:
“’Need Some1 mostra il lato che preferisco della nostra band. Siamo liberi di pubblicare un singolo del genere insieme a tracce dominate da Keith e Maxim, e comunque mantenere la nostra immagine intatta”. Sulla campionatura di Holloway: “c’è sempre un elemento nei nostri brani che ci ricorda da dove veniamo. Quando mi hanno chiesto come sarebbe stato il nuovo album, la mia risposta è stata: Evil Rave. È quello il nostro sound, ci appartiene”.
Eppure, il primo urlo in stile Prodigy arriva solo nella traccia 3, con We Live Forever, ed anche qui la voce di Flint è accelerata e arriva come quella di un ragazzino. E non si tratta solo della voce: i Prodigy qui compongono dell’ottima musica, ma commettono forse l’errore in post-produzione di accelerarla eccessivamente, laddove i ritmi che li hanno resi famosi erano certamente rave e hardcore, ma la loro magia stava nel fatto che non erano supersonici, e perciò erano ipnotici. Fino alla traccia 5, invece, sembra di sentire “soltanto” un gruppo techno.
L’abum, il settimo per i Prodigy, composto, prodotto e mixato lo scorso anno dal Howlett, nel suo studio a King’s Cross a Londra, sembra frutto di una produzione one man, ma è lo stesso Howlett a segnalare che MC Maxim e Keith Flint sono fortemente presenti, con contributi musicali e la voce. Insomma, non ci sono scuse: ci sono anche troppi collaboratori esterni, ma i Prodigy sono ancora loro tre, vent’anni dopo The Fat Of The Land, un disco che ha segnato un’epoca insieme a quelli di Fatboy Slim, Underworld e Chemical Brothers. E che ha portato la band nell’olimpo non del genere, ma assoluto, venduto 30 milioni di dischi e ottenuto moltissimi riconoscimenti (due Brits, due Kerrang! Awards, ben cinque MTV Awards e due nomination ai Grammy Awards).
Eppure, qui si avverte qualche stanchezza, non nel fatto che i ritmi sono bassi (l’esatto contrario, dicevamo) ma nel fatto che non è cattivo e aggressivo come quelli storici. Sembra riconoscerlo lo stesso Howlett: “quest’album è aggressivo quanto gli altri, ma in modo diverso”.
No Tourists è appunto il primo vero pezzo Prodigy di questo disco, ma soprattutto è con Fight the Fire with Fire che riconosciamo, sin dal titolo, la band che tutti abbiamo imparato ad amare.
E in questa sezione centrale che si riconosce dunque il marchio Prodigy: Flint canta cattivo come al solito, e mentre li ascolti te li immagini già che si agitano come pazzi sul palco. Qui riconosci il sound Prodigy, quello di Smack the Bitch Up o di Firestarter. E non a caso Fight the Fire with Fire ha delle velocità minori, e la sequenza di bassi campionati che è il marchio di fabbrica della band dell’Essex. E perciò il sound diventa meno dance e più rave.
Sono sulla stessa scia anche Champions of London mentre vi farà saltare dalla sedia Timebomb Zone, purtroppo rovinata dal coretto femminile in stile disco. Ancora una voce femminile in Boom Boom Tap, con l’inizio che scivola verso il trip hop quasi commerciale, per fortuna ripreso al minuto 1 quando entrano i campionamenti di batteria a ritmi altissimi. Ma resta un pezzo incompiuto, che scimmiotta troppo Stop the Rock di Apollo 440, ma quella non è la strada dei Prodigy. Come non è la strada di Give me a Signal e Resonate, dove sembra che Howlett voglia gareggiare con i Chemical Brothers.
Una cosa è certa: dal vivo il disco, circondato dai pezzi storici, saprà rendere e soprattutto far sudare. Ancora Howlett: “E’ come la chiusura di un cerchio. Non potrei scrivere dei pezzi sapendo che non finirebbero, prima o poi, su un palco. L’idea stessa mi aiuta a scriverli. È la dimensione del live il motivo per cui tutto nasce. E finché avremo la possibilità di farvela sentire dal vivo, continueremo a fare musica”. E speriamo che accada la solita magia anche a Livorno e a Milano, dove il trio è atteso tra il 30/11 e il 1/12.
Insomma, ci sono buone cose in questo disco, nel solco di una tradizione che li ha resi celebri. Ma la loro forza, che stava ne ritmi ipnotici e negli sfoghi di Flint martellanti e sgraziati, lascia spazio qui a una maggiore ricerca musicale, che però li rende meno primordiali e violenti, togliendo alla band qualcosa più che arricchirla.
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autore: Francesco Postiglione