Chi ha mantenuto un occhio vigile su ciò che Shannon ha continuato a realizzare dopo l’ottimo “Flightsafety” del 1999 sarà sicuramente meno sorpreso del sottoscritto di fronte alle ruvidezze che questa sua ultima fatica discografica scodella quasi brutalmente nei padiglioni dell’ascoltatore di turno. Già, come se non bastasse il quotidiano tormento dei sensi di colpa, cominciamo proprio con l’ammetterne una. D’altro canto il citato album, benchè segnasse appena il debutto solista della musicista di Jacksonville (la Florida non è solo Miami), sembrava già aver messo in banca quello che sarebbe stato il suo sound anche negli anni a venire.
Per la parte dell’artista con trascorsi di gruppo, stanca delle relative dinamiche e desiderosa di una forma musicale che placasse nella quiete sonora le ansie e le contraddizioni di una vita, Shannon era decisamente tagliata. Allora si diceva che si fosse rintanata addirittura in Sudamerica per accentuare il più possibile il senso di rottura con quanto venuto prima (notizia che oggi non trovo confermata nella bio – più dettagliata del solito – di cui il disco è corredato). Non c’era altro da fare che augurarle la serenità che anima chi riesce a perseguire l’espressione di sé senza condizionamento alcuno. E sereno, benchè tiepidamente malinconico nella sua introspettività, appariva anche quel primo capitolo discografico.
Vi starete chiedendo – e fa piacere sapere che siete ancora lì – cosa ci sia di strano nel riscontrare cambiamenti stilistici in un musicista. No, non c’è nulla di strano, se non la sensazione che può provare un bambino di fronte a un’improvvisa tempesta di fulmini quando il suo immaginario non vede altro che sole e cielo azzurro. E allora il punto è questo: di evoluzioni stilistiche “loud-quiet” in vita nostra ne abbiamo viste a mai finire. Quello che ci mancava era il percorso inverso. E’ su di esso – senza sapere che tappa rappresenti – che si posiziona “Over the Sun” (che peraltro accresce di ulteriori punti il già ricco pedigree di Steve Albini).
E allora bastano pochi secondi dell’iniziale ‘With Closed Eyes’ per riporre il libro che avevamo scelto perché la Wright gli facesse da sottofondo e fare spazio all’inaspettata ondata di rabbia che sembra aver rapito la cifra stilistica della nostra. Una rabbia lucida, tipica – e scusatemi se schematizzo – di chi non riesce a fare a meno di mettere intensità e accenti emotivi in ciò che sta esprimendo, sorta di disperato tentativo di arginare il torrente verbale che un’interiore urgenza espressiva rischia di far tracimare. Un senso di incombente collasso emozionale che sconvolge l’usuale assetto folk-rock in ogni suo elemento, dalla voce – ora densa, tormentata, quasi convulsa – alla chitarra – mai come oggi lontana dalla funzione di mero accompagnamento, mai come oggi poderoso lamento dell’anima.
“Non c’è che tormento e desiderio” recitava con risolutezza uno dei dialoghi-massime di “Uomini Semplici” di Hal Hartley. Ed è questo stesso concetto a sembrare scolpito con vigore dalle liriche e dal sound di “Over the Sun”, tormento e desiderio, due forze vitali che nel duellare l’una contro l’altra fanno da circolo virtuoso nel guidare l’individuo-Shannon verso il traguardo di una consapevolezza spirituale sempre più nitida. “Tormento” come il sofferto post-rock – sì, c’è anche lei dentro, ma abbastanza defilata dal coro – che, annaffiato come benzina nella opening-track, prende fuoco nella successiva ‘Portray’. Ed ecco, a quel punto, il “desiderio”, pioggia santa che poco alla volta smorza gli ardori lasciando sul campo le fiammelle di ‘Black Little Stray’, ancora capaci di qualche “vampata” di chitarra”, o la cenere bagnata di ‘You’ll Be the Death’, in cui – con inconsapevoli richiami al melò dei Devics – una love story pare celebrare la sua drammaticissima, avvolgente, arpeggiata swan song.
Un vento di pianoforte torna a spirare in ‘Throw a Blanket Over the Sun’ e ‘Avalanche’, riflessivi episodi in cui Shannon sembra ripiegare sui brandelli di vita residuati dal precedente “incendio”. E rieccolo, pronto a rialimentarsi, quel “tormento” foriero di inquietudini che da ‘If Only We Could’ a ‘Plea’ si fa a poco a poco più crudo e impietoso, fino – nella conclusiva ‘Birds’ – a far dissolvere ogni equilibrio in una tempesta di ossessive sensazioni.
La coscienza è tabula rasa, la solitudine è qui e adesso, unica forza perché l’individuo rialzi la testa.
Autore: Bob Villani