Ci è estranea, oltremodo, la realtà delle Forbici di Manitù. Attivi da oltre 20 anni, Manitù Rossi e soci hanno tirato su un giocattolo che ha voluto prendersi beffe di tutti i moderni standard nel fare rock, trovando in una dimensione spiccatamente sperimentale il proprio estro. Le cronache parlano di un elettronica – e non solo – messa al servizio di un concettualismo rumorista e votato all’astrazione, ma tali risultati sono stati raggiunti non senza fare ricorso – e già a partire dal nome – a una discreta dose di ironia. Si potrebbe dire che senza di loro un’etichetta come Snowdonia – sento già Cinzia strepitare… – non sarebbe mai nata, ma lasciamo che una simile congettura resti tale piuttosto che verità sacrosanta.
Con tali premesse era inevitabile – pensiamo che erano anche i “plastificati” anni 80 – che Le Forbici di Manitù trovassero dimora discografica, e in genere operativa, presso realtà molto sotterranee ed esplicitamente iconoclaste-antagoniste: pochi album (visto il “tfr” maturato) ma tantissimi nastri e partecipazioni a compilation dall’intenso sapore di diy-network. Fino ad approdare alla barese Small Voices, che di recente ha aperto le sue porte a un altro nome storico dell’electro-industrial italico, i T.A.C.
“Tagliare” suona dichiaratamente come un resoconto di questi due decenni, benchè in forma atipica. Le coordinate sonore sopra accennate perdono consistenza in favore di un pop sbilenco e surreale, in cui svetta la voce traballante di Manitù, sballottata tra storie assortite di ordinaria (a)normalità. Quanto all’impianto sonoro – in relazione al quale va segnalata la cantina come location di registrazione del disco – esso, forte di pulsanti bassi wave-funk, rasoiate di chitarra e tappeti di organo e tastiere, emerge compatto e soprattutto coeso, tanto più se pensiamo a quanto sia decisivo, nell’economia della riconoscibilità del sound, l’apporto dei flauti (questa non l’avreste detta) di Gabriella Marconi.
Ciò che non vi ho ancora detto è che “Tagliare”, onde far le cose in grande stile, si è fatto doppio per voi. Laddove il primo supporto si presenta come “greatest hits” poco ortodosso, quello che si svela dal doppio fondo del crystal box è l’ormai classico complememto di simili celebrazioni: una remix/remake compilation con cui amici, colleghi e ospiti di Manitù (e compagnia) omaggiano questo vate minore dell’avanguardia. Della partita sono il minimal-dub degli Emma Peel Sons, gli snowdoniani Maisie e Plozzer (in insolita modalità decadente, quasi tombale), i decani Technogod in salsa electro-blues-funk, gli abrasivi Erasermen (con l’involontario ed esilarante contributo di Gig Proietti aka Mandrake di “febberedacavalliana” memoria), il pop etereo e obliquo dei Valvola (qui incrocio perfetto di Stereolab e Deerhoof), la deep ambient di Teho Teardo (Meathead, remember?), e alcune chicche come l’immersione nei 23 minuti di remix jam tra Duozero, T.A.C., Nocturnal Emissions e altri, la cover della beatlesiana ‘Cry Baby Cry’ di un insolito Manitù solista, le stesse Forbici ammantate di cupo dark (‘d-version a-la Cocteau’ – più chiaro di così…) che rimodellano se stessi. Senza tema di “prender fischi per fiaschi” (ah, quel benedetto spot di whisky…), dei due è questo il disco che ci garba di più…
Autore: Roberto Villani